La Furia Umana
  • I’m not like evereybody else
    The Kinks
  • E che, sono forse al mondo per realizzare delle idee?
    Max Stirner
  • (No ideas but in things)
    W.C. Williams
UBALDO FADINI / Mostri e istituzioni

UBALDO FADINI / Mostri e istituzioni

Quello che mi propongo in questo contributo è di avvicinare percorsi di ricerca considerati spesso estranei tra loro o comunque assai distanti. Si tratta di giocare, con un occhio di riguardo a ciò che appare “nostro”, sul tavolo disegnato da processi di scorrimento di temi, concetti, figure che riguardano ambiti di riflessione – in particolare sul “nodo” istituzione – di segno tedesco e francese, per così dire. Un gioco da riferire, sullo sfondo, alla questione di ciò che sembra delinearsi oggi come una vera e propria metamorfosi antropologica, riferibile alle trasformazioni radicali degli assetti e delle configurazioni della “nostra” soggettività.

Non voglio dilungarmi qui sulle ragioni o sulle cause di tale dinamica, mi interessa di più presentare un quadro, in modo rapido/sintetico, di ciò che a me appare ancora stimolante da prendere in considerazione rispetto al “nodo” delle istituzioni. D’altra parte, il mio lavoro di ricerca è segnato da più decenni da una attenzione costante a tale “nodo”, affrontato in più maniere: a partire dall’utilizzo di strumenti di natura antropologica, sociologica, giuridica e comunque sempre filosoficamente ritagliati o piegati.

L’elemento di partenza è dato dalla tradizione dell’antropologia filosofica moderna: il punto di vista che qui prediligo è quello proprio di Arnold Gehlen, nel momento in cui chiarisce al meglio come l’essere umano sia “compito a se stesso”, come la conduzione della propria esistenza affondi le sue radici nello “iato”, cioè nella distanza interna delle pulsioni dall’azione, che è ciò che libera una vita interiore costituita da pulsioni rese consapevoli perché appunto inibite. Le stesse prestazioni di carattere inibitorio, insite in ogni bisogno orientato, sono rese possibili da una vita pulsionale del tutto singolare, contraddistinta da un eccedere che si traduce nella possibilità di progettare (all’esterno) e di disciplinare (all’interno), concretizzandosi infine in “regolazioni attive”, “autorealizzate”, che vedono l’azione coniugarsi con l’intelligenza in un controllo mirato dell’esperienza pulsionale. La volontà non rappresenta che l’ordinamento di ciò che è già, in una qualche misura, “educato”, cioè “fissato e definito” (i “bisogni”) e volere significa allora “prestazione direttiva” (Führungsleistung), “struttura” di comando delle azioni di un essere che è principalmente “tema a se stesso”1.

L’approccio antropologico si muove quasi automaticamente, in maniera sempre meno impacciata negli anni del secondo dopoguerra, verso l’introduzione del concetto di istituzione come imprescindibile messa in forma, anche su base istintuale: sia pure in quantità residuale (riprendendo parzialmente le indagini di Konrad Lorenz), dell’agire: ciò trova una esplicitazione in Urmensch und Spätkultur (1956), sulla base della rilevazione dell’importanza decisiva della stabilizzazione nel tempo delle pratiche di soddisfazione (dei bisogni). Il compito dell’istituzione è quello di determinare ulteriormente la spinta ad agire che deriva dalla natura “plastica”, elastica, variabile e dunque di veste artificiale, dell’essere umano. Karl Otto Apel sottolineava, a suo tempo, come la deduzione delle istituzioni dalla naturalità dell’essere umano proiettasse inevitabilmente su di esse l’“immagine ideale” di un funzionamento quasi-istintuale (in grado comunque di dare soddisfazione ai bisogni elementari). Ma ciò che sempre tengo più a mente, per la loro indubbia precisione e fertilità, sono le osservazioni di Friedrich Jonas, quando rileva che “l’intera problematica delle istituzioni si chiarisce con il fatto che esse stesse presuppongono nel loro formarsi un certo adempimento di fondo. Esse sono dipendenti da un eccesso di energia che devono impiegare per i loro scopi. Un rituale può nascere soltanto là dove energie si sono liberate dalla copertura del fabbisogno. Quando la vita si esaurisce in ciò, allora nessun esonero può essere posto nella durata. Le istituzioni si fondano per così dire su un terreno che non è loro”2.

Le istituzioni derivano dall’eccedenza vitale, non hanno un carattere puramente autoreferenziale. Il taglio antropologico dell’indagine si dispiega quindi – anche in questa direzione più effettivamente “sociologica” – nella individuazione del carattere decisivo del fatto che le istituzioni presuppongono un adempimento di fondo che in prima battuta non rinvia a bisogni storicamente determinati, poiché in esse si trasferisce il principio dell’esonero come condizione di possibilità della sopravvivenza umana. Quest’ultima appare sempre meno come un “affare” del singolo, essendolo sempre più dell’istituzione, con i suoi bisogni “obbligati”, che si è tenuti a soddisfare, comunque accanto ad altro, perché appunto altro si possa fare.

È nella dimensione delineata dallo iato (dall’apertura…) tra le pulsioni e la loro soddisfazione che si profila il ruolo della “fantasia”, meglio: di quella facoltà che assicura in definitiva la stessa sopravvivenza, permettendo il trasferimento, il portarsi, nelle “cose”, nelle “pratiche” e negli altri esseri viventi: la fantasia costituisce, in tale ottica, l’autentica struttura “comunicativa” dell’essere umano.

È possibile cogliere sei forme dell’immaginazione, per lo sguardo antropologico di Gehlen (in L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, del 1940): immaginazione “passiva” o “memoria”, immaginazione “riproduttiva” o “sensomotoria”, immaginazione “ludica”, immaginazione “linguistica”, immaginazione attiva o della “rappresentazione”; rispetto a tutto questo – che già consente di qualificare l’uomo come essere capace di memoria, “ripetitivo”, “ludico”, “linguistico”, in grado di produrre rappresentazioni: in una prospettiva che vede il singolo in/formare la sua realtà “interiore” elaborando il mondo circostante – si può anche dire che si raffigura fin qui un quadro dell’immaginazione che rinvia all’esperienza di un singolo che in-forma la sua realtà “interiore” elaborando il mondo circostante. Questa idea viene corretta dalla forma di immaginazione che non è altro che lo stesso “eccesso pulsionale” tradotto nella formula della “fantasia originaria”. Questa forma decisiva dell’immaginazione consente di afferrare come l’essere umano acquisisca una “coscienza di sé” soltanto indirettamente, attraverso una qualche mediazione: “Il modello fondamentale è per Gehlen la fantasia come trasposizione complessiva di più uomini in un ‘fantasma’ comune, che è il suo ‘organo sociale’, si potrebbe dire: il suo ‘organo culturale’” (Henning Ottmann). C’è quindi una vera e propria immaginazione “originaria” in cui l’uomo ha come un “presagio” di ciò che preme in direzione di “più vita”, di quella stessa tendenza della vita al potenziamento di sé che muove e rende concrete le possibilità di differente realizzazione dell’umano.

Il motivo dell’istituzione, pensato in prima approssimazione come dispositivo di trasformazione della “carenza” organica in “cultura” (in “naturale” – ovvio e “ragionevole” – artificio), può quindi essere sottilmente considerato come l’espressione di una sorta di “astuzia della vita” che indirizza l’“eccesso pulsionale”, la “fantasia originaria”. Una tale “metafisica della natura sapiente” (così Pietro Barcellona) è disposta in modo tale da consentire di individuare l’origine dell’istituzione (e si ricordino qui le pagine sul totemismo in Urmensch und Spätkultur) in un processo di trasposizione dell’energia vitale degli uomini in “fantasmi”: ad esempio, proprio quello dell’animale totemico. Le istituzioni sono comunque da considerarsi come delle “forme” (a livello “molare”, si potrebbe dire) di “esecuzione” di compiti decisivi per l’esistenza degli uomini, in quanto ne stabilizzano la natura “precaria” e pericolosamente sovraccarica di oneri. Si sa come l’analisi gehleniana scivoli poi rapidamente verso ciò che dà sostanza alla formula della “libertà che nasce dalla estraneazione” ma tale immagine iper/realistica dell’immaginario istituzionalizzato rischia seriamente di compromettere la versatilità della fantasia, in/formata, nella sua spesa all’interno dei processi di costituzione della soggettività e dei suoi “mondi”. Ciò che “così va perso è un concetto di fantasia che possa comprendere anche la fantasia soggettiva e individuale, e non soltanto quella fissata istituzionalmente. Ciò che non viene messo in conto è la fantasia come manifestazione di un agire non prefissato, libero. Con la sua teoria delle istituzioni, (Gehlen) ci ha presentato la fantasia dell” ‘uomo primitivo’ – fantasia che tutti noi abbiamo avuto. Ciò che però è assente, è la fantasia che abbiamo come soggetti, come individui, così come manca infine quella fantasia che possiamo avere”3.

Ma a queste annotazioni possiamo agganciare anche le considerazioni critiche di Theodor W. Adorno, nel suo colloquio con Gehlen, del febbraio 1965, che sottolineano l’impossibilità del porsi di una “natura umana preculturale” in vista della delineazione di una “scienza dell’umano” in grado di comprendersi anche come “scienza dei rapporti che si sono automatizzati dagli uomini”: “(…) innanzitutto l’uomo è un essere storico, cioè un essere che è formato da condizioni e rapporti storici in misura infinitamente più ampia di quanto assuma l’accezione ingenua, che si accontenta per così dire del fatto che gli uomini non siano mutati poi tanto, per lunghissimi periodi di tempo, a giudicare dalle loro caratteristiche fisiologiche”4.

Ma da qui si potrebbe arrivare alle riflessioni di Adorno sulla fantasia come fattore di realizzazione del giudizio, dell’atto conoscitivo non inteso come ripetizione incessante del già noto, oppure all’analisi del rapporto tra l’organismo umano, in alcuni suoi caratteri, e certe progressioni tecnologiche, che ripropongono una spiegazione di quest’ultime su base soprattutto antropologica e rispetto alla quale Adorno ha buon gioco a sollevare obiezioni pertinenti, di stampo “francofortese” e gusto “marxista”, che trovano pure una qualche eco addirittura nella proposta complessiva delle macchine desideranti, sociali e tecniche in Gilles Deleuze e Félix Guattari.

A proposito di Deleuze ed è su questo che punto e ho puntato (ormai da una vita…): la rilevazione gehleniana del ruolo determinante della fantasia (nella realizzazione di ciò che in ogni caso siamo: esseri di fantasia), al di là delle cristallizzazioni dell’immaginario appunto sovra-determinato (per ragioni comunque considerate “nobili”) e del riconoscimento che comunque noi abbiamo bisogno di “vincoli”, di “obblighi” (bisogno accettato anche da Adorno), per poter vivere in società, mi sembra un buon elemento in funzione di apripista per afferrare alcune peculiarità della ricerca del giovane Deleuze su… natura umana, istinti e istituzioni. Anche su questo punto: non si può che insistere sull’importanza dello studio su Hume e della antologia pubblicata, “via” Canguilhem, nel 1955 – ma che cosa si ricava, tra l’altro, da questi testi? Un’idea di rilancio del carattere creativo del sociale e, insieme, della possibilità, così concreta, di pensare istituzioni non consegnate alla dimensione “molare” e quindi di fatto alternative a quelle comunque esistenti. Ricordo come ciò consegni Deleuze ad una prospettiva, che si chiarirà con il passare del tempo, di analisi politica di segno effettivamente originale, basata proprio sulla distinzione tra la legge, individuata come vero e proprio fattore di limitazione, e l’istituzione stessa, vista come una vera e propria “impresa”, come “un sistema artificiale di mezzi positivi, un’invenzione positiva di mezzi indiretti”. I “mezzi indiretti” si contrappongono ad altri mezzi di soddisfazione, invece diretti, come sono gli “istinti”. Non che l’uomo non li possegga (anche Gehlen arriverà a riconoscere la presenza di residui istintuali nell’umano, con la loro conseguente spesa organizzativa a livello istituzionale, rendendo così parziale – ridimensionandolo – il riconoscimento della costitutiva plasticità della natura umana: ma la sua vicenda – dell’essere umano come specie – può essere riassunta efficacemente nell’idea che l’uomo sia “un animale che si sta spogliando della specie”. Legge e istituzione ci restituiscono un’immagine diversa del sociale, del suo effettivo protagonismo. La legge, così come si rileva a partire dalla batteria delle teorie contrattualistiche tra il XVI e il XVIII secolo, ridimensiona il potere sociale, la sua creatività, considerandolo negativamente e come fonte di disturbo, da sanzionare senza incertezze. Le teorie del contratto, che celebrano il primato della legge, “pongono il positivo fuori del sociale (i diritti naturali) e il sociale nel negativo (limitazione contrattuale)”. Positiva è la natura cristallizzata, la fantasia ormai spenta, esaurita senza saperlo, letteralmente e pienamente in/formata. Il concetto di istituzione pone invece il “negativo al di fuori del sociale (bisogni) per presentare la società come essenzialmente positiva, inventiva (mezzi originari di soddisfazione)”. Il negativo è dato dai bisogni naturali e poi anche artificiali, ma registrati su un piano di cristallizzazione della vita sociale: quello che colpisce è qui la possibilità di riflettere meglio sulla produzione dei bisogni e in questo senso si potrebbe ancora intercettare la lezione “francofortese” (si veda Adorno e le prime pagine di Minima moralia).

Come è già stato detto, ad esempio molto bene da Filippo Domenicali, le tesi di Deleuze richiederebbero, tra l’altro (sottolineo: tra l’altro), un rimando, un rinvio ai giuristi istituzionalisti della “Scuola di Tolosa”, da Maurice Hauriou a Georges Renard, che individuano nell’analisi istituzionale la possibilità di vedere diversamente dal solito i rapporti tra il giuridico e il sociale, tra le norme e il vivere comune: l’istituzione, in tale ottica, può essere considerata anche come modo di lettura della realtà di qualsiasi gruppo organizzato, senza passare per forza di cose da una teoria dello Stato, del suo indiscutibile primato. Altre pezze d’appoggio della particolare posizione deleuziana potrebbero essere colte in Bergson e molto dovrebbe essere ancora aggiunto, ma ciò che mi interessa qui è che bisogni, istinti, tendenze siano visti come qualcosa che non può essere astratto – nell’uomo e per l’uomo – “dai mezzi che si organizzano” per soddisfarli (per soddisfarla: la “tendenza”, in riferimento all’uomo). E’ decisivo poter pensare a soddisfazioni che non siano state ancora realizzate/provate e per farlo è importante richiamare la facoltà più potente, quella dell’immaginazione, che presiede alla formazione di “modelli di soddisfacimento” ed è appunto “potenza formatrice”. Ho scritto molte volte che la punta effettiva d’interesse delle pagine deleuziane è da rinvenire nella individuazione dello specifico istituzionale riferito appunto all’immaginazione. Le istituzioni rappresentano una operazione di sintesi, “intelligente” perché “riflessa”, della tendenza, delle sue spinte, che così com/presa può infine essere soddisfatta. In ciò consiste la sua differenza dall’istinto, con l’avvertenza che però la tendenza non spiega l’istituzione, perché questa “è un modello di azioni, una vera e propria impresa, un sistema inventato di mezzi positivi, un’invenzione positiva di mezzi indiretti. Questa concezione istituzionalista rovescia effettivamente il problema: ciò che sta fuori dal sociale è il negativo, la mancanza, il bisogno. Quanto al sociale, è profondamente creativo, inventivo, è positivo. Indubbiamente si dirà che la nozione di convenzione in Hume ha grande importanza. Ma non la si deve confondere con il contratto. Porre la convenzione alla base dell’istituzione significa soltanto che quel sistema di mezzi che l’istituzione rappresenta è un sistema indiretto, obliquo, inventato, in una parola culturale”5. Con che cosa dobbiamo allora fare i conti per spiegare l’istituzione nella sua peculiarità? La risposta è semplice: dobbiamo introdurre accanto ad essa e alla tendenza un terzo elemento, quello dell’ambiente, delle circostanze…, in quanto l’istituzione è un vero e proprio ambito, una sorta di Umwelt artificiale che sostituisce quella naturale e di fatto agevola la dismissione lenta dell’abito istintuale. Le istituzioni valgono come un mondo intermedio tra le tendenze dell’/nell’uomo e l’ambiente effettivamente esterno. Si potrebbe qui richiamare di la lezione di Jakob von Uexküll e poi Canguilhem e, insieme a quest’ultimo, Georges Friedmann: certamente piegati nella direzione della messa in evidenza di un fuori, di forze, che stanno dentro ciò che è istituito e che spinge verso la creazione di nuove istituzioni. Si potrebbe tornare ancora alla Scuola di Tolosa oppure andare a Gabriel Tarde e alla contrapposizione netta nei confronti delle posizioni di Durkheim: ma tutto ciò può essere qui sintetizzato con la domanda sul da dove dell’impresa creativa, localizzato appunto nel sociale e nella sua incessante produzione di casi, dal punto di vista giurisprudenziale, di “deviazioni” dalla norma che come tali vanno sempre rinforzate (per riprendere un po’ fuori luogo Niklas Luhmann).

Insomma l’analisi istituzionale, di taglio comunque accademico, e l’urgenza di istituzioni alternative, originali, manifestata dal giovane Deleuze, il loro incontro nella produzione iniziale del filosofo francese, producono/produce una sorta di molecolarizzazione del processo di istituzionalizzazione, in relazione al protagonismo del sociale, alla sua irrequietezza, che può favorire (anzi, lo richiede sempre di più…) la formazione di micro-istituzioni, di creazioni gruppali, per dirla con Félix Guattari. Spesso si fa riferimento, per sottolineare il persistere di tale sensibilità all’interno del percorso complessivo della ricerca deleuziana, a una conversazione con Antonio Negri, del 1990, dove Deleuze dice: “Ciò che mi interessava erano le condizioni collettive più che le rappresentazioni. Nelle ‘istituzioni’ c’è un preciso movimento che si distingue allo stesso tempo dalle leggi e dai contratti. In Hume trovavo una concezione assai creativa dell’istituzione e del diritto (…). Il mio interesse non è rivolto né alla legge né alle leggi (la prima è una nozione vuota, le seconde nozioni compiacenti), e nemmeno al diritto o ai diritti, ma alla giurisprudenza. E’ la giurisprudenza che crea veramente il diritto: occorrerebbe che non rimanesse affidata nelle mani dei giudizi”6.

Da sottolineare è poi la convinzione che ciò che va inteso come democrazia – se non vogliamo soltanto comprenderla come una tecnica di governo – è in primo luogo “un regime in cui vi sono molte istituzioni e pochissime leggi”7. Ma è in particolare dal confronto con Michel Foucault che Deleuze arriva a pensare l’istituzione come espressione di un potere, di un rapporto di forza, di un diagramma costituito dalla composizione, dal collegamento, sotto veste di affezioni, di più elementi. Certo, si dovrebbe riprendere il ragionamento sul fuori, in Foucault e prima in Maurice Blanchot, ma Deleuze lo piega nel senso di individuare accanto al molare anche il molecolare, il “micro-”, e di poter così andare a indicare una linea del fuori, disegnata da movimenti del sociale che si fanno istituzione diversa, differente espressione della potenza di immaginazione. Questa linea del fuori è la linea del fuori del potere (ci sono rapporti di forza…) e il tentativo è pure quello di andare al di là del potere, di passare per quella sua strana linea. Verso che cosa? Oltre il sapere e il potere, in direzione di qualcosa che è strettamente intrecciato con essi e che però permette di andare appunto oltre, come espressione di una “passione violenta”, “una sorta di scommessa tra la vita e la morte”. Si sa che tutto ciò, il terzo asse, Foucault lo scopre inizialmente, “freddamente” e opportunamente, nei Greci. A me sembra, per ciò che mi interessa, che sia possibile ritrovarlo pure nella risoggettivazione del sociale e nel suo trasporto istituzionale, in qualità certo di vincolo e però soprattutto di veicolo.

Riprendiamolo allora seriamente in considerazione il “sociale” nelle sue odierne, innumerevoli complicazioni, e per muovere la riflessione in direzione della rilevazione il più possibile attenta delle odierne trasformazioni/metamorfosi antropologiche tengo particolarmente presenti le riflessioni di Christian Marazzi sul “capitalismo digitale” e sulla centralità dell’anthropos nei suoi sviluppi, che presentano la tendenza fondamentale della smaterializzazione crescente del capitale “fisso”, nel momento in cui emergono come essenziali le tecnologie più “precise”, “molecolari”, “sottili” (come quelle dell’informazione e della comunicazione, ad esempio), alla quale corrisponde una sempre più rilevante affermazione della dimensione tecno-bio-antropologica della forza-lavoro: “La smaterializzazione del capitale fisso e dei prodotti-servizio ha quale suo corrispettivo concreto la ‘messa al lavoro’ delle facoltà umane quali la capacità linguistico-comunicativa e relazionale, le competenze e le conoscenze acquisite in ambito lavorativo e, soprattutto, quelle accumulate in ambito extralavorativo (saperi, sentimenti, versatilità, reattività, ecc.), insomma l’insieme delle facoltà umane che, interagendo con sistemi produttivi automatizzati e informatizzati, sono direttamente produttive di valore aggiunto. Nel modello della ‘produzione dell’uomo attraverso l’uomo’ il capitale fisso, se scompare nella sua forma materiale e fissa, riappare comunque nella forma mobile e fluida del vivente. Nella nostra ipotesi, il corpo della forza-lavoro, oltre a contenere la facoltà di lavoro, funge anche da contenitore delle funzioni tipiche del capitale fisso, dei mezzi di produzione in quanto sedimentazione di saperi codificati, conoscenze storicamente acquisite, grammatiche produttive, esperienze, insomma lavoro passato8.

A mio parere, il motivo concreto del “vivente come capitale fisso”, cioè la trasposizione delle funzioni del capitale fisso nel corpo vivente della forza-lavoro (una dinamica essenziale all’interno delle società di “nuovo capitalismo” o di “capitalismo flessibile”, per dirla con Richard Sennett), è ciò che “agita”, tra l’altro, negli ultimi decenni molta sperimentazione artistica, soprattutto sotto veste letteraria e cinematografica. E’ in questo senso che ripropongo una attenzione critica rispetto ad una figura dell’immaginario tecnologico della seconda metà del Novecento che si presenta come la frontiera più avanzata di un confronto tra l’uomo e la macchina: il cyborg, ripreso in virtù della lezione effettivamente magistrale di Donna Haraway. Tale confronto, come aveva spesso sottolineato uno studioso acuto dell’immaginazione tecnologica come Antonio Caronia, ha ovviamente una lunga storia alle spalle, in quella che possiamo definire come “cultura occidentale”, ma per limitarci alle raffigurazioni degli ultimi secoli, si possono tranquillamente richiamare l’automa settecentesco, il robot primo-novecentesco, l’androide e, appunto, il cyborg. Alla base di quest’ultima figura c’è l’idea che determinate progressioni/accelerazioni tecnologiche, estremamente “mirate”, “sottili”, “molecolari”, possano mutare radicalmente il disegno dell’umano fin qui conosciuto, ponendosi anche come delle “protesi poietiche”, straordinariamente effettuali nell’ambito del particolare dinamismo della soggettività contemporanea. Se si guarda alle espressioni della singolare dialettica – di “collassi” reciproci, per riprendere “parzialmente” Jean Baudrillard – tra l’immaginario tecnologico e il reale nel Novecento, allora un rinvio non troppo scontato è sempre al movimento cyberpunk degli anni Ottanta, che ha avuto l’indubbio merito di mettere in scena le complicazioni della relazione tra l’essere naturalmente artificiale dell’uomo e l’artefatto di sua una collocazione “elettronica”, proprio in quel cyberspazio dentro il quale trova sempre più accoglienza buona parte del nostro vivere quotidiano.

Non voglio però soffermarmi troppo a lungo su questo quadro ormai “classico” di riferimenti utili a comprendere meglio quello che si può etichettare come una vera e propria metamorfosi antropologica che qualifica sempre più il nostro essere-nel-mondo in termini complicati, tali da rendere ovvia la questione, oggi cruciale, di come ritornare positivamente “a vivere nel mondo” (Tim Ingold). Faccio invece un collegamento rapido con alcune annotazioni di una studiosa importante come Rosi Braidotti che insiste sul considerare il corpo come di-segno di differenza: alla studiosa delle “dissonanze” o del “soggetto nomade” interessa il corpo femminile, il motivo della differenza sessuale nel suo iscriversi nell’orizzonte variegato della discorsività post-moderna, al quale si connettono le altre differenze che segnano il corpo. Ma mi apparea particolarmente significativa pure l’attenzione a quelle differenze di ordine morfologico e strutturale che sono ancora rilevate come delle vere e proprie mostruosità: “I corpi ‘deformi’ sono infatti una costante non solo del discorso scientifico, specialmente quello biologico, psicologico e medico, ma anche di molte discipline sociali che puntano sulla ‘normalità’ come modello di base. L’anomalo, o l’anormale, viene dunque costituito come figura abietta e tuttavia ubiqua: è l’altro che si deve in ogni modo evitare, quello a cui è proibito assomigliare. Tutto si gioca appunto sulla somiglianza e la differenza, dove i segni distintivi e quindi i criteri di differenziazione non sono gli attributi sessuali, ma organi, morfologie o fisionomie speciali. La normalità definita come ‘grado zero della mostruosità’ riassume in sé una serie di aspettative e di norme socio-simboliche che fanno di un certo tipo di corporeità il modello base”9.

La mia idea, riprendendo parzialmente anche il ragionamento di Braidotti, è che il “vivente come capitale fisso” sia ormai sempre più rilevante per la nostra sia pure singolare “normalità base”, che si tratti infine di apprezzare convenientemente il suo articolarsi pure come soggettività eccedente la logica data della “sua” valorizzazione (il suo positivo divenire-mostro o mostruoso divenire) e di analizzare criticamente quelle dinamiche della sua determinazione/fissazione all’interno della sfera della valorizzazione economica, che deprimono l’espressione della sua trama sociale e dello stesso differenziale soggettivo. In questa prospettiva valgono comunque sia la pratica critica della cartografia concettuale sia la ricerca delle figurazioni espressive del vivente umano “non unitario”, strettamente legate tra di loro e rivolte a individuare soprattutto quelle progressioni tecnologiche che investono la “carne” e in definitiva i transiti identitari, i movimenti di soggettivazione, qualificandoli anche nel loro residuare “entità mostruose”, così come poi le raccoglie il “gotico post-moderno”, cioè “l’immaginario sociale teratologico delle società post-industriali”. L’intenzione cartografica è quindi quella di affrontare senza pregiudizi, con sensibilità nomadica e rizomatica, soprattutto i cyber-mostri delle società caratterizzate dall’affermazione del modello antropogenetico di produzione, proprio delle società di capitalismo digitale, per sondare un immaginario sociale in rapida trasformazione, che non può essere popolato soltanto dalle ansie delle (pseudo)-maggioranze tele-visionarie, mostrando anzi processi critici di divenire-minoritari o impercettibili, per dirla con Deleuze e Guattari.

Arrivando a un piano più propriamente di valutazione teoretica, è innegabile che nella “nostra” tradizione di pensiero (quella “occidentale”) la differenza sia stata spesso descritta in termini negativi, configurandosi come una sorta di “inferiorità peggiorativa” in grado di svolgere un ruolo strutturale di conferma della superiorità del soggetto dominante su ciò che è appunto diverso, “altro”, deviante, mostruoso. Tale “modalità dialettica binaria” (in grado anche di chiarire le asimmetrie eclatanti dei rapporti di potere) viene decisamente alterata nell’era della “globalizzazione post-industriale”, che presenta una proliferazione di differenze che intacca le “dicotomie dialettiche Sé/Altri”, ad esempio quella del movimento delle donne, che “ha inciso una cicatrice indelebile sul tessuto simbolico della cultura fallocentrica”, o delle “soggettività emergenti dall’orizzonte post-coloniale”. A ragione, Braidotti osserva ancora come le culture post-industriali dominanti abbiano assunto una disposizione, rispetto ad un futuro che si cerca di marcare anticipandolo nelle sue linee di sviluppo tecnologico, “che alterna un senso di euforia senza limiti (…) oppure (…) paranoia e ansietà” sulla possibilità stessa dell’articolarsi di un futuro qualsiasi: “L’immaginario sociale della tarda post-modernità occidentale urbana si trova nella morsa del teratologico, o degli altri mostruosi. Il mostruoso, il grottesco, il mutante e l’evidentemente grottesco si sono guadagnati un ampio spazio nelle culture urbane post-industriali, figure di una tendenza che si definisce anche ‘gotico post-moderno’ (Becker). Nella sua analisi, che è un classico, Lesley Fielder sostiene che a partire dagli anni Sessanta, si è sviluppata una cultura giovanile che pratica una relazione forte, anche se ironica e parodia, con i freak. La cultura femminista non fa eccezione. Susan Sontag ha fatto notare che il revival dell’interesse culturale nei confronti degli esseri ripugnanti nella letteratura e nel cinema degli anni Sessanta coincide con la messa fuori legge del Freak Show di Coney Island. La soppressione fisica degli ‘scherzi di natura’ da territori fortemente controllati funziona come licenza per la loro reificazione come materia da utilizzare nell’arte e nella cultura popolare”10.

La “reificazione” è tale anche e soprattutto nella formazione del capitale fisso umano, di un vivente che viene assimilato dal modo di produzione storicamente determinato e rispetto al quale vale comunque sempre la pena investire per la sua eventuale autonomia. Quest’ultima è messa a tema, sia pure parzialmente, proprio da quella cultura contemporanea che proietta la problematica delle mutazioni genetiche dal laboratorio ad alta tecnologia alla cosiddetta “cultura popolare”. I nuovi mostri di certa letteratura di fantascienza o del cinema trovano poi indubbiamente una “naturale” collocazione nelle rappresentazioni fantastiche dello spazio antropologico della Rete. Gli ibridi corpi mutanti popolano appunto sempre più ambiti di genere come quello horror, per non richiamare ancora quelli direttamente riferibili alla fantascienza. Il successo di tali espressioni letterarie – ma si pensi anche al cinema – è il sintomo, ancora a parere di Braidotti, dell’irruzione sullo scenario del presente di una dinamica cyber-mostruosa, meglio: di un “nuovo fenomeno tecno-teratologico ‘post-umano’ che privilegia il deviante o il mutante rispetto alle versioni più convenzionali dell’umano”.

È interessante la sottolineatura dell’interesse “minoritario” rispetto a entità ibride e mutanti – che raffigurano anche potenziali liberatori (emozioni, affetti, fantasie, eccessi…) individuati attraverso il collasso dei limiti, dei confini netti del corpo, dei contorni del corporeo combinato con le “macchine” – disegnate a partire dalla rilevazione di aree “ad alta turbolenza”, di messa in discussione radicale della “soggettività classica”, della sua “razionalità” con forte pretesa di identità stabile e unitaria. Accanto alla sovrapposizione del mostruoso al grottesco come “categoria socio-politica del corporeo incline alla ribellione”, decisiva per l’articolazione dell’immaginario della tecno-ibridazione del nostro tempo, mi sembra decisamente importante l’osservazione, in Madri, mostri e macchine, di una capacita di tale immaginario a mostrare le mutazioni sociali, culturali e simboliche mediante una ricerca attenta alle specificità dei regimi visivi della rappresentazione propri della tecno-cultura, dato che il potere onnipervasivo di quest’ultima sembra effettivamente derivare, in gran parte, dall’importanza crescente della dimensione visiva appunto dell’attuale progressione tecnologica. Inevitabili sono i rinvii, in questo senso, all’occhio panottico al centro delle ricerche foucaultiane dei primi anni Settanta (che hanno poi un esito significativo, tra gli altri, nella teoria del bio-potere) o alla politica di “visualizzazione”, per arrivare a Baudrillard, il quale pone l’accento sui poteri della visualizzazione, all’interno della rivoluzione elettronica in svolgimento, fino al punto da indicare una riduzione del sé corporeo a superficie di registrazione predisposta per eventuali “incarnazioni virtuali”. A ciò aggiungerei le analisi di Paul Virilio sull’accecamento estetico e politico proprio di quell’illuminismo diffuso della nostra contemporaneità, caratterizzata da una sovraesposizione massmediatica (in grado di rendere il sensibile fotosensibile e l’oggettività teleobiettività) che ha come sua prima vittima la stessa “arte del vedere”, della elaborazione della percezione (ottica) del mondo concreto, sensibilmente circostanziato. Rispetto ai “maestri teorici dell’estetica nichilista” (ma estrarrei in ogni caso la “carta” Virilio da questo mazzo sapientemente “truccato”), si impone allora il compito di creare delle figurazioni della soggettività “con-fusa” dalle complicazioni e contraddizioni dell’universo tecnologico. Da qui deriva il ruolo positivo accordato al ritorno di fiamma nei confronti di alcuni generi della cultura popolare: ancora l’horror letterario la fantascienza, certo cinema di genere… capaci di fornirci delle rappresentazioni perspicue di tali trasformazioni e mutazioni. Questi generi hanno il merito di evidenziare “sia l’aspetto liberatorio sia quello dell’applicazione potenzialmente unilaterale delle nuove tecnologie”, di presentare “elementi sia utopici che dispotici relativi alla morfologia e l’organizzazione sociale della sessualità umana per fini riproduttivi. Offrono un campo di coltura ideale per esplorare ciò che Haraway descrive affettuosamente come ‘le promesse dei mostri’. Sono convinta che la fantascienza sia un genere da difendere innanzitutto come letteratura di idee, con un serio contenuto filosofico e un’evidente vocazione ad impartire lezioni morali. (…). Ritengo (…) che l’idea della fantascienza metta in atto uno piazzamento della nostra visione del mondo che ci allontana dall’epicentro umano e che riesce a stabilire un continuum con il mondo animale, minerale, vegetale, extra-terrestre e tecnologico. Punta ad un egualitarismo post-umanistico e bio-centrato. Come intelligentemente sostiene Laurie Anderson, il suo anti-antropocentrismo consente alla fantascienza di liquidare rapidamente la domanda sulla ‘natura umana’ e il suo repertorio psicologico, in modo da potersi muovere verso l’esplorazione di altri mondi possibili. Le emozioni comunemente associate con gli umani non vengono eliminate bensì de-centralizzate e diffuse in tutto il testo. Apprezzo la fantascienza contemporanea proprio perché offre un’accurata descrizione della proliferazione delle multiple differenze nell’era delle tecnologie avanzate e dell’ingegneria genetica. La complessità è tale da non poter più essere incastonata in una modalità dialettica di opposizione tra il Sé e l’Altro e quindi provoca una crisi di rappresentazione sia della similitudine sia della differenza. L’immaginario mostruoso trae la sua forza dirompente proprio dal fatto che esprime l’inquietudine culturale su questi mobili confini”11.

Questo immaginario mostruoso si collega ad una idea della fantascienza come “inconscio politico” (Fredric Jameson) della cultura contemporanea, caratterizzandosi spesso in termini apocalittici, mettendo a tema il problema della possibile estinzione dell’umano, della “morte del futuro” veicolata dalla progressioni del capitalismo postfordista. Ovviamente Braidotti rimarca come Jameson apprezzi comunque il genere della fantascienza proprio perché contesta radicalmente la separazione del sapere scientifico dai territori dell’immaginazione e della fantasia, ma ancora più importante è il rinvio (anche per la conferma della presenza di un approccio morale, della “vocazione ad impartire lezioni morali”) alle annotazioni di Noël Carroll (nel suo ormai “classico” The Philosophy of Horror. Paradoxes of the Heart, del 1990) sul fatto “che la contemplazione della morte del futuro, l’estinzione dell’umano, è la condizione di possibilità della letteratura contemporanea”. E’ indiscutibile che il genere della fantascienza raffiguri una “economia politica di preoccupazione generalizzata sulle inevitabili catastrofi”, una paura diffusa nei confronti di possibili incidenti, imminenti e immanenti, come sostiene Brian Massumi, alla stessa dinamica culturale del capitalismo più avanzato, la quale presenta i luoghi di manifestazione di tale paura anche come spazi di una riduzione del carattere problematico (“virtuale”) dell’esistenza a mera “possibilità” appunto di catastrofe, a “catastrofe mercificata, mercificazione come comunità spettrale nel luogo della minaccia” (così Massumi – studioso attento, tra l’altro, del pensiero deleuziano – nel suo importante Anywhere you want to be: an introduction to fear, del 1992, ripreso proprio da Braidotti).

Insomma, si torna a trattare il mostro come possibile figura di libertà in un’ottica che mi fa tornare in mente Deleuze, il suo Differenza e ripetizione, in cui il filosofo francese insiste da un lato sul motivo della “indifferenza”, dell’“abisso” appunto “indifferenziato”, “nero niente”, “animale indeterminato in cui tutto è dissolto”, dall’altro ne indica un carattere diverso, raffigurato nella “superficie ridivenuta calma in cui fluttuano determinazioni slegate”. Si legge nel testo del 1968: “La differenza ‘tra’ due cose è soltanto empirica, mentre estrinseche sono le determinazioni corrispondenti. Senonché in luogo di una cosa che si distingue da un’altra, immaginiamo qualcosa si distingua, eppure ciò da cui si distingue non si distingua da essa. Il lampo per esempio si distingue dal cielo nero, ma deve portarlo con sé, come se si distinguesse da ciò che non si distingue”. E ancora, laddove si rileva come il “fondo” risalga alla superficie senza perdere se stesso: “C’è qualcosa di crudele, e anche di mostruoso, da una parte e dall’altra, in questa lotta contro un avversario inafferrabile, in cui il distinto si oppone a qualcosa che non può da esso distinguersi e che continua a coniugarsi con ciò che da esso si separa. La differenza è questo stato della determinazione come distinzione unilaterale. Della differenza, si deve dunque dire che la si fa, o che si fa, come nell’espressione ‘fare la differenza’. Questa differenza o LA determinazione, è dopo tutto la crudeltà”12.

Affiora quindi la sensibilità estrema di Artaud nel momento in cui la crudeltà appare identificabile con quel determinato che conserva il suo rapporto decisivo con l’indeterminato e Deleuze ancora una volta si smarca dalla presa “triste” di coloro che s/qualificano come colpa o peccato la differenza stessa, nella quale il “fondo” sale, dissolvendo la forma. Si passa attraverso il testo nietzscheano per giungere a Spinoza, alla sua tesi del carattere espressivo dell’essere che ce lo restituisce con la sua regola del divenire e del così intendere l’identità come “principio secondo”, “principio divenuto”, che gita attorno al differire, al differente come singolare “identità della differenza”, di ciò che ritorna sempre appunto come “ripetizione” del divenire e delle sue figurazioni mostruose. Eccolo, quindi, il mostruoso come figura di libertà: “Quando si esercita, ‘la’ determinazione non si limita a dare una forma, a formare materie nella condizione delle categorie. Qualcosa dal fondo risale alla superficie, vi risale senza prendere forma, insinuandosi anzi tra le forme: esistenza autonoma senza volto, base senza forma. Il fondo nella misura in cui si trova ora alla superficie è detto profondo, senza-fondo. Viceversa, le forme si decompongono quando si riflettono in esso, ogni modellato si disfa, tutti i volti muoiono, e sola sussiste la linea astratta come determinazione assolutamente adeguata all’indeterminato, come lampo uguale alla notte, acido uguale alla base, distinzione adeguata all’oscurità intera: il mostro”13.

È da tutto questo che si perviene ad una idea del mostro come oggetto/soggetto di produzione, che non ri-presenta in fondo la natura, anche poi ritornandovi in un qualche modo, ponendosi anzi come una specie sostitutiva, nel suo soppiantare sempre diversamente, anche quando appare, la natura, appunto ri-muovendola o facendola propria, appropriandosene senza residui. Quello che allora conta, come si sosteneva nel libro del 2001, è l’affermazione di un’idea di mostro non ridotto a semplice “curiosità naturale” ma colto come espressione dell’attività di lavoro, in forme tecno-scientificamente assai sofisticate, sospinta continuamente verso territori di confine, abitati dalle innumerevoli metamorfosi dell’ibrido/mostruoso.

Insomma, il mostro non è soltanto un prodotto, anche sotto forma di “scherzo” (per noi…), della natura ma appare come espressione parziale, temporanea, revocabile, definitivamente contingente, in effetti – si può dire – “seconda natura” non pre-ordinabile. Felicità e libertà fanno così capolino nel suo manifestarsi, nel senso proprio di un desiderare alla fine “biopolitico”, di impronta etica e, se si vuole, rivoluzionaria.

Ma ancora va aggiunto qualcosa, che ha a che vedere con la percezione che oggi si ha del mostro, che si dispiega nel senso della rilevazione della sua ambiguità, di ciò che vale pure come contraddizione e che può sfociare poi materialmente, da ogni punto di vista, come dinamica di crisi, di urgenza politica nell’individuazione di ciò che accade alla dismisura tecnica che si combina con il vivente, con la sua determinazione come forza-lavoro di segno soprattutto cognitivo. E’ questa complicazione tutt’altro che assolutamente negativa ad apparirmi – sul piano antropologico e su quello tecnico – come fattore di possibile potenziamento della capacità di organizzazione dei “cavalieri” contemporanei in vista di un raccordo politicamente avanzato tra l’immaginazione “sociale” e una pratica di disattivazione progressiva dalla parte dei composti tecnologici. Per chiarire quest’ultimo elemento di riflessione e appunto per concludere provvisoriamente questo contributo, non posso che richiamare ancora una volta una annotazione di André Gorz, particolarmente incisiva e che faccio mia: “Il capitale fisso umano non è, come il capitale fisso ordinario, del lavoro morto ‘oggettivato’, servito o messo in opera dal lavoro vivo. Esso è, al contrario, della stessa natura del lavoro vivo. Risultato dell’attività e delle esperienze proprie dell’individuo sociale. Il capitale fisso umano non è soltanto tutto suo, è lui stesso frutto della sua capacità di prodursi da solo. Ne consegue che neppure gli individui sviluppati hanno avuto bisogno di un’impresa capitalista per prodursi, neanche essi hanno avuto bisogno di un’impresa capitalista per mettere in opera ‘il loro capitale’, ossia le loro capacità, in modo produttivo. Essi possono in linea di principio emanciparsi dal capitale, sottrarsi al capitalismo per autoprodurre dei beni materiali e immateriali per il proprio uso comune sottraendoli alla forma valore, cioè alla forma denaro, alla forma merce. Questa possibilità di sottrazione e dunque di appropriazione del lavoro che è anche rifiuto e abolizione del lavoro, apre nel sistema una breccia attraverso la quale può in linea di principio avviarsi un esodo dalla società del lavoro e della merce”14.

Per allargare tale breccia nel senso della sottrazione/ri-appropriazione delle attività di esercizio comune e quindi socialmente immaginativo (e non ricondotto alla legge del plusvalore), i cavalieri del lavoro cognitivo hanno il compito politico imprescindibile di realizzare nuove pratiche di soddisfazione, delle istituzioni che non potranno che essere riconosciute come “mostruose”, a loro volta…, dal biopotere mondiale.

Ubaldo Fadini

1 Sulla ricerca complessiva di Arnold Gehlen sia consentito il rinvio, come espressioni parziali più recenti di un costante interesse, ai miei Soggetto e fantasia. Per una antropologia macchinica, Clinamen, Firenze, 2020 ed Eterotopie dell’umano. Metamorfosi antropologiche, Ombre corte, Verona, 2021.

2 Friedrich Jonas, Die Institutionenlehre Arnold Gehlens, J. C. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen, 1966, p.58.

3 Henning Ottmann, Der Mensch als Phantasiewesen. Arnold Gehlens Theorie der Phantasie, in Alfred Schöpf (a cura di), Phantasie als antropologisches Problem, Königshausen-Neumann, Würzburg, 1981, p.168.

4 Theodor W. Adorno – Arnold Gehlen, La sociologia è una scienza dell’uomo? Una disputa, in Theodor Adorno, Elias Canetti, Arnold Gehlen, Desiderio di vita. Conversazioni sulle metamorfosi dell’umano, tr. a cura di Ubaldo Fadini, Mimesis, Milano-Udine, 2019, p.83.

5 Gilles Deleuze, Empirismo e soggettività. Saggio sulla natura umana secondo Hume, tr. a cura di Filippo Domenicali, postfazione di Ubaldo Fadini, Orthotes, Napoli-Salerno, 2018, pp.44-45.

6 Gilles Deleuze, Controllo e divenire, in G. D., Pourparler. !972-1990, tr. di Stefano Verdicchio, Quodlibet, Macerata, 2000, p.223.

7 Gilles Deleuze, Istinti e istituzioni, tr. a cura di Ubaldo Fadini e Katia Rossi, Mimesis, Milano, 2002, p.30.

8 Christian Marazzi, Capitalismo digitale e modello antropogenetico di produzione, in Jean-Louis Laville, Christian Marazzi, Michele La Rosa, Federico Chicchi, Reinventare il lavoro, Sapere 2000, Roma, 2005, p.111 (questo testo di Marazzi è ora raccolto nel suo Il comunismo del capitale. Finanziarizzazione, biopolitiche del lavoro e crisi globale, Ombre corte, Verona, 2009).

9Rosi Braidotti, Madri, mostri e macchine, tr. a cura di Anna Maria Crispino, Manifestolibri, Roma, 2005, p.10 (si veda ora anche la recente ristampa per l’editore Castelvecchi, Roma, 2021).

10 Ivi, p.28.

11 Cfr. ivi, pp.34-36. Ricordo qui appunto Donna Haraway, Le promesse dei mostri. Una politica rigeneratrice per l’alterità inappropriata, edizione italiana a cura di Angela Balzano, DeriveApprodi, Roma, 2019).

12 Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione, tr. di Giuseppe Guglielmi, revisione di Giuliano Antonello e Anna Maria Morazzoni, Cortina, Milano, 1997, p.43.

13 Ivi, pp.352-353.

14 André Gorz, Pensare l’esodo dalla società del lavoro e della merce, tr. di Saverio Caponi, in “Millepiani”, n.33, 2008, pp.17-18.