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TONI D’ANGELA / Living School. La scuola come trouble

TONI D’ANGELA / Living School. La scuola come trouble

“Questo era il più importante nell’essere là: non

aver finito il mio viaggio;

anzi, forse, averlo appena cominciato”

Elio Vittorini

“To be less solid”

Jane Bennett

“Problema è una parola interessante.

Una delle sue varianti inglesi – trouble – rivela dei legami particolari:

deriva da troubler, un verbo francese del tredicesimo secolo

che significa ‘rimescolare’, ‘rendere opaco’, ‘disturbare’.

Ci ritroviamo a vivere sulla Terra in tempi confusi, torbidi e inquieti”

Donna Haraway

La scuola come laboratorio con la porta sempre aperta sul mondo, in cui si sperimenta la didattica della performatività, che non è né la performance del “grande insegnante” istrione che, in ultima analisi, provoca incantamento e incatenamento, se non soggezione o passività, né una logica finalizzata alla produzione di qualche risultato magari monetizzabile. Performatività (concetto riferito alla prassi teorica della fisica-filosofa Karen Barad) significa didattica processuale, che si fa tra, anzi è un farsi in-between che precede il confronto e a volte lo scontro tra soggetti già costituiti: docenti e discenti. Una didattica della diffrazione, non della riflessione, che dirotta il focus dal rispecchiamento (i discenti che rispecchiano lo stile d’insegnamento del docente o il docente che rispecchia i supposti bisogni educativi dei discenti), alla diffrazione. In altre parole: dalla interazione (quando e se sussiste) all’intra-azione. La prima implica che docenti e discenti siano già dati, come fissati in anticipo e una volta che entrano nell’aula – troppo spesso concepita solo come una scatola, un contenitore, uno sfondo inerte – dispiegano le loro proprietà altrettanto fisse che, al più, interagiscono fra loro. L’intra-azione è un farsi che con-costituisce docenti e discenti, una generazione di parentele, una simbiogenesi, un con-fare che è anche un learning by doing ma, a un tempo, un doing by learning perché tutti insieme si impara ad esercitare un ethos che ha riguardo per l’altro, l’altro diverso da sé e perfino l’altro che non è umano, come quello che, sbrigativamente, chiamiamo “natura”.

Una didattica dinamica che innesca e trasforma competenze e genera relazioni, al contrario della didattica statica che trasmette conoscenze e suscita opposizioni gerarchiche. Una didattica dell’agency che, come scrive Judith Butler, non è né il mio atto (quello dell’insegnante) né il tuo atto (quello dell’alunno) ma qualcosa che accade in virtù della relazione che c’è tra noi (tra insegnanti e alunni), che preserva e dissemina valori generativi, piuttosto che stabilire ruoli definiti e compiti fissi. Una relazione attiva e reciproca: una collaborazione. Forme plurali di intra-azioni, di cui c’è sempre più bisogno in un’epoca, come scrive sempre Butler, segnata da sensazioni individuali di ansia e fallimenti, di privatizzazione della “cura”, di responsabilità per la sola autosufficienza e di decimazione dei servizi sociali (tra cui la scuola) e contrazione degli spazi pubblici, gestiti in condivisione.

Un laboratorio non solo con la porta aperta sul mondo (sulle sue trasformazioni, i suoi problemi e le sue potenzialità) ma in cui gli spazi, i materiali, gli strumenti non siano mai concepiti come inerti o indifferenti; in cui si dissemina la didattica e la si disarticola e riarticola, uscendo al di fuori della scuola, per distribuirsi sul territorio che è sempre un taglio locale di un flusso generale continuo. Uscire da scuola e immergersi nelle identità del territorio ma sapendo che le identità sono sempre differenziate, cangianti, ibride e che ciascuno di noi, come scriveva A.N. Whitehead, è un supergetto piuttosto che un soggetto; non è mai un individuo ma una comprensione di fenomeni e avvenimenti che hanno a che fare sempre con altri, altri soggetti che sono differenti. Carlo Emilio Gadda scriveva che è stolto pensare l’individuo umano come un’unità, poiché è l’effetto di un insieme di relazioni che non sono mai unite. E questo vale anche per le cosiddette identità culturali, che sono grovigli e ibridi. Il locale è sempre frammisto al globale soprattutto in un’epoca come quella dell’Antropocene, anzi Capitalocene, come suggerisce Donna Haraway, in cui problemi sono collettivi, comuni e globali e, pertanto, anche le strategie di intervento non possono che essere di ampio respiro e devono comportare una catena solidale non solo tra gli esseri umani ma anche tra umani e nonumani (ciò che chiamiamo piante, animali, oggetti, “natura”, ecc.). Il nesso tra Covid19 e Guerra in Ucraina si chiama Capitalocene.

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Se soggetto e oggetto, uomo e natura, dentro e fuori non sono che opposizioni binarie ereditate dal pensiero occidentale giusto per dare un ordine al mondo e visualizzarlo come fondo impiegabile,astrazioni che troppo spesso hanno giustificato se non motivato sia lo sfruttamento dell’altro che lo sfruttamento della Terra, allora anche la coppia docente-discente va radicalmente ripensata, come va ristrutturata la concezione della scuola a partire dagli spazi che non sono un semplice fondale ma che sempre, consapevolmente o meno, influenzano comportamenti e scelte di docenti e discenti e di tutti coloro che lavorano e vivono a scuola.

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Uscire da scuola per entrare nel mondo, ancor più che nel territorio; un mondo largo, in continuo divenire, che racchiude possibilità, in cui non ci sono confini, semmai limiti, cioè tensioni, soglie mobili che favoriscono e permettono oltrepassa menti continui: quelli fra le discipline, quelli fra docenti e discenti e quelli fra scuola e territorio, promuovendo una didattica inter-disciplinare, un interscambio continuo tra insegnanti e alunni e un’apertura constante al mondo circostante. La scuola, così, è situata e ibrida.

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È nel processo di questo farsi che emergono non solo docenti e discenti, non più separati da uno iato, ma anche le stesse pratiche discorsive (didattiche, metodologie, “contenuti”) mai disgiunte dalle condizioni materiali (aule, spazi, strumenti, luoghi): didattica dell’emergenza in cui, di volta in volta, ci si aggiusta gli uni sugli altri, valorizzando chi emerge prima nel compito di recuperare chi emerge dopo e differentemente (risorsa-compagno, peer education) e aggiustandosi sui luoghi e gli spazi, nell’intra-azione con ciò che ci circonda (pareti, oggetti) e con gli strumenti utilizzati (dai colori alle sedie fino ai portatili). Didattica che intreccia discorsi e materie.

La scuola diventa così un campo di manifestazione energetica, in cui le “lezioni” sono avvenimenti, cioè qualcosa che avviene e che è modificato continuamente da ciò che accade, è accaduto e accadrà.

Didattica orizzontale e non solo perché, al tempo stesso, si può lavorare su più piani (incrociando peer education, flipped classroom e inter-disciplinarietà) ma perché l’obiettivo non è impiegare strumenti e spazi concepiti come risorse e plasmare alunni percepiti come tabula rasa, tra l’altro abituandoli ad un rapporto con “le cose del mondo” solo strumentale e contabile. Finalità di questa didattica attivista sono le relazioni vive, la sperimentazione di un farsi, di attività che introducono qualcosa di nuovo, che introducono il possibile nel reale, un becoming reiterato e condiviso insieme ad altri, altri che sono anche gli spazi, gli strumenti, tutto ciò che è nonumano e che ancora oggi non consideriamo degno di rispetto, con la conseguenza che le attività umane, giustificate da tale antropocentrismo, erodono il futuro compromettendo seriamente l’equilibrio della Biosfera.

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Autocrearsi, auto generarsi, crescere, formarsi e svilupparsi, non può che implicare la relazione con l’altro e gli altri. Come scriveva Charles Darwin l’uomo co-evolve insieme a tutte le altre specie, a tutto ciò che è nonumano, anche perché ciò che accade agli altri e all’altro dall’essere umano sempre influenza e modifica l’essere umano.

A scuola, così, si oltrepassano i confini dell’individualismo e dell’antropocentrismo, proponendo e sperimentando una didattica della molteplicità, cioè della vibrazione continua dell’essere, come direbbe Gadda.

Nella didattica della performatività il motore dell’apprendimento reciproco (se l’insegnante non impara non può insegnare) è l’agency, che non è l’azione che il docente esercita sul discente e nemmeno il semplice feed back che quest’ultimo invia al primo, ma è un’intra-azione che non appartiene né al soggetto né all’oggetto, né al docente né al discente. Ispirandosi al fisico fondatore della meccanica quantistica, Niels Bohr, si può dire che la didattica dell’intra-azione rifiuta la pedagogia individualista e gerarchica che considera docenti e discenti come cose fisse, con proprietà intrinsecamente già determinate e stabili e, quindi, ruoli preassegnati. Una didattica che mette in discussione la separazione quasi ontologica tra insegnante e alunno; così come Bohr aveva criticato la separazione cartesiana tra soggetto e oggetto, spirito e materia.

Intra-azione significa che insegnanti e alunni non preesistono alle relazioni e queste non sono soltanto didattiche, metodologie, contenuti, parole, conoscenze, ecc., ma anche spazi, luoghi, oggetti, strumenti, ecc.

Si fa sempre scuola, ma diversamente; Gadda direbbe: c’è sempre un preesistere nel divenire. Così come permane la causalità nonostante la meccanica quantistica; la scienza contemporanea non ha abolito la nozione di causalità, ma l’ha riorientata radicalmente. C’è sempre sapere, un sapere più diffuso, che circola, che, come l’arte di un Marcel Duchamp o un Robert Rauschenberg, più che essere l’opera del genio dell’insegnante, del virtuoso che modella, è una co-composition: una libera collaborazione tra docenti e discenti, tra docenti e docenti, discenti e discenti e anche tra umano (discorsi, didattiche, contenuti) e nonumano (materie, spazi, oggetti). Didattica dell’assemblage che interseca gesti, parole, oggetti, discipline, materiali, spazi fra loro diversi.

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Elio Vittorini, a proposito delle opere letterarie – e commentando proprio l’eccezionalità gaddiana – distingueva tra libri come beni di consumo e libri come mezzi di produzione; quest’ultimi sono quelli interessanti, cioè hanno significato culturale. La letteratura, osserva Vittorini, può avere una “funzione venosa”, riporta il sangue sfruttato verso i polmoni, priva di ossigeno, che usa quello altrui; e può avere una “funzione arteriosa” che è nutrimento, che nutre la vita degli altri. La scuola non può essere un prodotto finito e chiuso offerto, come un pacco postale o una merce, a studenti e famiglie, ma deve essere un processo sempre rinnovabile, come i patti che, diceva Spinoza, sono fatti per essere rotti e rinnovati; e non può limitarsi a trasmettere a riportare sangue nelle vene, ma deve far respirare, nutrire, scoprire.

Continuando con Gadda e le sue metafore, la scuola non può essere solo “vertebre degli acquedotti” – qualcosa già posto, attuato, che si trasmette tale e quale, che “sostiene” – ma deve diventare anche “pompe centrifughe” – essere attuante, farsi, trasformarsi, perché il mondo è multiforme, è un differenziarsi continuo. Solo così, la scuola “prepara” alla realtà che è ciò che si tien pronto, come dice Gadda. Pronto a ciò che accade, pronto a risponde al cambiamento, all’incontro con l’altro che sempre divarica gli orizzonti di senso, soprattutto quando gli orizzonti non si fondono ma giocano tra loro anche in un margine di necessaria e ineluttabile indeterminazione.

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Come suggerisce Bruno Latour: complicare, implicare e comporre. Complicare i modelli, non solo didattici ma del mondo; implicare coloro che ne sono interessati, quindi gli alunni e perfino i loro genitori e gli altri insegnanti; e infine comporre, porre insieme agli altri, imparare con e attraverso gli altri.

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La scuola che drammatizza, mette in scena il dialogo sullo scenario nel quale si è sempre inscritti e che la drammatizzazione (in luogo del mero debate) modifica. La scuola come happening, in cui si impara facendo e si fa imparando, insieme agli altri, ispirati dai materiali e pronti a usarli, come Rauschenberg, creando, fra esitazioni, incertezze, errori e stupori, qualcosa che introduca il cominciamento nel mondo – la definizione della libertà secondo Hannah Arendt. La scuola come il mondo, che è aperto e differenziato: alleanza di differenti agency. La scuola come parte viva del mondo che è un processo continuo, dinamico, in divenire e sempre aperto, senza confini, non per risolvere problemi ma fare un po’ di confusione, o molta, cioè trouble. Per fare kin. Per essere, come scrive Donna Haraway, “capaci di articolare una risposta accanto a chi, nella nostra specie, è troppo sicuro di sé e del mondo” – e anche nelle nostre scuole.

Toni D’Angela