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Pensare, senza condizione. Conversazione con Federico Ferrari

“And if when I pompously announce that I am addressed — To the imagination — you believe that I thus divorce myself from life and so defeat my own end, I reply: To refine, to clarify, to intensify that eternal moment in which we alone live there is but a single force — the imagination.”

William Carlos Williams, Spring and All (1923)

Federico Ferrari insegna Estetica all’Accademia di Belle Arti di Brera. Tra i suoi ultimi libri: L’insieme vuoto (Johan & Levi, 2013; 2024), L’anarca (Mimesis, 2014; Sossella, 2023), Oscillazioni (SE, 2016), Visioni (Lanfranchi, 2016), Il silenzio dell’arte (Sossella, 2021), L’antinomia critica (Sossella, 2023) e, con Jean-Luc Nancy, Estasi (Sossella, 2022). Ha co-fondato e co-dirige la rivista Antinomie.

EM: Ho letto il suo libro, L’antinomia critica, alla fine del primo semestre [del primo anno di università], e mi è piaciuto davvero, erano parole che stavo cercando, che avevo bisogno di sentire dopo sei mesi che mi avevano un po’ scoraggiato. In un punto mi ricordo di aver letto che “la dignità di un pensiero è data dal suo coraggio e dal coraggio che sa infondere”, diciamo che il libro ha funzionato in questo senso. 

FF: Sì, la frase in realtà non è mia, è di Wittgenstein. Dunque, di un filosofo di un certo peso. È una frase importante, pur con tutti i problemi che una frase del genere porta con sé.  È una frase che sembra immediata ma non lo è. Però, sicuramente, è una frase di cui capisco l’importanza all’interno dell’odierno panorama universitario. Un panorama in cui, in realtà, per molti aspetti, il coraggio è molto raro. 

EM: Quello che mi chiedevo e continuo a chiedermi è perché sia la scuola che l’università – non sempre e non solo – spengano queste scintille. 

FF: Ecco, penso sia giusto sottolineare che “non sempre e non solo”. Per la scuola, probabilmente, per lo più, questo fenomeno di “raffreddamento” è dovuto a una situazione strutturale che coinvolge problemi generati dalla rigidità dei programmi ministeriali. E, poi, non bisogna mai dimenticare la dimensione economica, l’estrema povertà degli stipendi della classe docente, che crea molto spesso dei professori frustrati nel proprio slancio pedagogico (se mai c’è stato), castrando la vocazione all’insegnamento. Dal lato dell’università è una questione più complessa: l’incapacità ad alimentare i furori giovanili o, quanto meno, le scintille di passione sepolte in ogni giovane, dipende, credo, da una riduzione dell’università a un sistema di tipo produttivo. Ti faccio un esempio di questa riduzione del sapere universitario a una cultura di tipo aziendale. Prendiamo il caso della pratica di scrittura dei docenti universitari, intendo quella pratica di scrittura che dovrebbe fornire stimoli ai discenti. La maggior parte dei docenti, da ormai diversi anni, non scrive più per il piacere di scrivere ma perché pubblicare è necessario al fine di fare scatti di carriera. Il modello di scrittura – come ovvio, assai poco dettato dalla passione e, di conseguenza, assai poco appassionante – è predeterminato da un sistema di valutazione molto schematico per cui, ad esempio, si predilige la scrittura su un certo tipo di riviste, possibilmente straniere, possibilmente scritte in lingua inglese – cosa che presenta, già di per sé tratti aberranti, poiché non mi risulta che in Italia esistano decine di migliaia di docenti bilingue, il che, come risulta chiaro a chiunque, indica che gli autori di queste tonnellate di saggi sono persone che scrivono in una lingua inesistente o, ancora peggio, attraverso traduttori di intelligenza artificiale. Il risultato è una massa di saggistica scritta in una lingua orrenda e totalmente apatica, che nel caso della filosofia o delle scienze umane è inquietante. Quale studente potrebbe appassionarsi alla sua lettura? Chiaramente queste pratiche “utilitarie” e “egoistiche” (la propria carriera prima di tutto) denotano, inevitabilmente, una mancanza di coraggio, di esposizione al gesto di scrittura e di pensiero che è, in fondo, già predeterminato da situazione esterne molto codificate in cui, com’è noto, e come probabilmente è giusto, il coraggio non rientra tra gli elementi di valutazione. 

EM: Quindi se non è valutabile, smette di essere una priorità. Ne parlavo con uno dei miei professori, che si concentra sulla lettura e parafrasi dei testi perché si rende conto che gli studenti a suo parere non sono capaci di leggere i testi della filosofia, e lui mi chiedeva “cos’altro potrei fare?”, ma io mi chiedo se non sia anche questa una mancanza di coraggio: non si potrebbe avere più fiducia negli studenti, aspettarsi di più da loro, spingerli a colmare autonomamente le loro lacune – sempre che le abbiano davvero? 

FF: Non conosco la realtà odierna di una facoltà di filosofia quindi non so rispondere con reale cognizione di causa. Ma capisco che ci possa essere una difficoltà nella lettura di alcuni testi all’interno di una società che non favorisce la lettura, se non in una sua modalità estremamente veloce e limitata nello spazio, e dove la scuola non forma e non abitua alla lettura dei libri nella loro integralità. Aggiungo anche che non mi sentirei di dire che la lettura seguita, la lettura del testo da parte del docente, l’esegesi del testo, sia in sé negativa, anzi, se fatta bene può aiutare a comprendere, in profondità, come si legge un testo. Intendo che può aiutare a comprendere come si legge un testo, ancor più e ancor prima di comprendere che cosa c’è scritto in un determinato testo. Questo esercizio può essere molto utile se compiuto sui classici. Ad esempio, uno dei primi corsi che ho seguito all’università, ormai trent’anni orsono, era sulla Scienza della Logica di Hegel e il professore, in classe, leggeva il testo, riga per riga – infatti in un corso semestrale avremo letto, sì e no, un capitolo. Ma dopo la conclusione di quel corso, io riuscivo a leggere un testo di Hegel così difficile e, per certi versi, “repulsivo” per uno studente di 19 anni, e riuscivo a capire la grandiosità di una mente come quella di Hegel che, apparentemente, soprattutto in quegli anni, era il “nemico” di ogni studente. Naturalmente, se la lettura è solo un tentativo di parafrasi, fondata su sentimento di sfiducia nelle capacità di comprensione dello studente (sfiducia che porta l’insegnante a auto-limitarsi nell’esegesi), allora questo esercizio di lettura commentata assume dei tratti un po’ inquietanti, perché si riduce a una rinuncia, alla più grave delle rinunce: la rinuncia all’idea che si possa insegnare qualcosa. Sicuramente, si può fare di più. Ad esempio, io non faccio questo tipo di lettura, ma io non insegno in un dipartimento di filosofia. Io insegno estetica e filosofia dell’arte all’interno di un’Accademia di Belle Arti. Il contesto differente genera differenti problematiche; impone necessariamente altre modalità d’insegnamento. Ho sempre reputato una grande fortuna insegnare a degli artisti o a dei critici d’arte in erba, perché questo mi ha sempre obbligato a confrontarmi con la concretezza della “cosa”, con la sua dimensione pratica, con la sua praxis. Io, cioè, non posso mai fermarmi a un livello di astrazione, come invece accade – non senza ragioni e non senza elementi di pregio – all’interno delle facoltà di filosofia. Ti faccio un esempio concreto. Mi ricordo molto bene che le immagini non compaiono o compaiono molto poco nei corsi di estetica. Quasi sempre ci si trova di fronte a un sapere disincarnato. Ovviamente, anche questa possibilità di non essere sempre legati alla contingenza o al contingente o al reale in senso stretto ha dei pregi. Si impara molto nella rarefazione dei concetti. Ma questo approccio, tipicamente universitario, ha anche un forte limite, che appare in tutta la sua evidenza, ad esempio, nei corsi universitari di estetica o storia dell’arte, dove non ci si confronta mai o quasi mai con il contemporaneo, con la forma formans ma solo con la forma formata. Lo stesso discorso, seppur con altre sfumature e complessità, vale anche per il pensiero. Ed è qui, in questo sapere poco propenso a confrontarsi con la sperimentazione vivente del contemporaneo, che si cela il rischio di sclerosi delle facoltà di filosofia: il pensiero che si insegna è, nella maggior parte dei casi, purtroppo, solo forma formata

EM: Ecco, spesso ci viene detto che le facoltà umanistiche debbano insegnare a pensare, ma dobbiamo prima di tutto pensare a cosa significa pensare; adesso sto studiando la filosofia moderna e per Hobbes pensare è calcolare, addizionare. Ascoltavo invece un discorso di David Foster Wallace in cui diceva che più che insegnare a pensare le humanities dovrebbero insegnare ad avere la sensibilità di non credersi al centro del mondo, di non vedere gli altri come automi, avere la libertà di scegliere come pensare il mondo. A proposito di libertà e filosofia moderna, Kant parla della ragione e del pensiero critico come strumenti che danno “la libertà di contraddire uomini grandi”. Mi ha fatto sorridere leggerlo; il mio primo insegnante di filosofia mi ha sempre detto che voleva darci gli strumenti per camminare sulla sua testa. Comunque, forse, in molti casi gli studenti sono davvero già più avanti dei loro docenti, o di quello che i loro docenti si aspettano da loro. 

FF: La questione che hai toccato adesso, secondo me, è legata a ciò che dicevamo poco fa, cioè che la maggior parte del corpo docente italiano, e forse non solo italiano, non è che sia scollegata dalla realtà ma è collegata a una realtà parziale. Si tratta di un corpo docente che fa tutto in previsione della realtà accademica. Un docente tipo – che, come tutti i tipi, è un’astrazione, ma serve per capire una tendenza –, per esempio, ti spiegherà che non ha nessun effetto sulla tua progressione di carriera spendersi nella società civile. Non ha nessun interesse per un docente universitario che non sia già al massimo livello – professore ordinario – scrivere su una rivista che non sia classificata, possibilmente in classe A, perché il suo lavoro non verrà valutato e, quindi, risulterà inutile ai fini di un avanzamento di carriera. Com’è noto, le riviste di classe A sono specialistiche e per lo più sono consultabili solo in biblioteca; non hanno nessuna volontà o propensione a creare un dibattito al di fuori del mondo accademico (ammesso, poi, che ne vogliano creare uno all’interno). L’articolo che appare sulla rivista di classe A non viene letto da nessuno, se non coloro che vi sono citati, i quali leggendolo e vedendosi citati sanno di aver contratto un debito nei confronti di chi li ha citati e sanno, di conseguenza, che dovranno citare a loro volta l’autore dell’articolo, perché questo favorirà la progressione di carriera di tutti. Scrivere altrove, su riviste non appartenenti a un sistema di valutazione, sarebbe una pura perdita di tempo. Questo lo dico non in astratto o basandomi su luoghi comuni, ma a partire dall’esperienza di una rivista che ho fondato, con Andrea Cortellessa e Riccardo Venturi [Antinomie]. Per concludere, scrivere senza alcun scopo utilitario significa praticare la cultura come pura dépense, come puro dispendio, come avrebbe detto Bataille. Una cultura incapace di dispendio è una cultura morta. 

EM: In effetti spesso si parla di come l’università sia per gli studenti un’istituzione volta alla produttività, che forma al lavoro – persino a Filosofia – non ci avevo mai pensato dal lato dei docenti. 

FF: I docenti non fanno che replicare il mondo a cui si sono volontariamente sottomessi. Il docente, insisto, non è una persona staccata dalla realtà. Il docente tipo, consapevolmente o inconsapevolmente (non so quale delle due opzioni sia peggiore), ti insegna che se vuoi fare un percorso professionale all’interno dell’accademia devi sottoporti a questo regime di parola; un regime di parola che è immediatamente sottoposto a codici ben definiti di tipo produttivo. In opposizione a questo regime di parola, ti dicevo prima, quanto sia o sarebbe importante che, almeno all’interno dello spazio dell’università, ci sia o ci fosse una modalità di dispendio della parola o del pensiero, perché il pensiero vive di questo dispendio assoluto, senza ritorno. Come il coraggio anche il pensiero è senza ritorno. In una società così conformista, come è la nostra, questo dispendio è ancora più importante, proprio perché è visto come un elemento improduttivo e, quindi, inutile, se non deleterio. Non conviene essere coraggiosi in un ambiente in cui tutti si conformano alle regole della produzione: essere coraggiosi vuol dire infrangere la regola, sostenere una posizione diversa da quella dominante. Questa infrazione o effrazione, però, non è produttiva né redditizia. Qualcuno potrebbe dire “che differenza fa? io produco, comunque, dei libri, anche in questo regime produttivo”. Certamente, di libri questo regime produttivo ne produce a tonnellate, ma i libri che produce sono confezionati a partire da parametri molto precisi, definiti e vincolanti: un certo tipo di struttura, di citazioni, di lingue consentite o privilegiate, un certo ventaglio di argomenti che deve essere funzionale a ciò che in quel momento è valutato come maggiormente interessante ai fini della ricerca nazionale o internazionale. Ora tutti questi parametri rimandano, alla fine, a una logica aziendale e mettono in pratica una riduzione dell’università ad azienda, all’interno della quale i professori diventano degli impiegati o – i più abili o i più fortunati – dei dirigenti. 

EM: Tornando all’altro lato, a volte anche quegli studenti che si rendono conto di queste contraddizioni e hanno il coraggio di metterle in discussione non hanno la preparazione teorica o critica per affrontare la situazione. 

FF: Questo non so da cosa possa dipendere. Non sono così certo che la capacità critica derivi dagli studi o, quanto meno, non credo sia una sua conseguenza diretta. Lo studio filosofico, della storia della filosofia in tutte le sue sfumature, dovrebbe servire, almeno da Kant in poi, a insegnare a pensare. Non dovrebbe insegnare cosa pensare ma come pensare. Quindi, credo che, dopo i primi due, tre anni di studio, lo studente dovrebbe avere i mezzi per studiare autonomamente, dovrebbe essere in grado di cominciare a praticare l’autonomia del pensiero, quell’autonomia che è il fondamento stesso del pensiero, almeno all’interno di quello spazio aperto dalla modernità in cui, sinceramente, spero, siamo ancora all’interno, nonostante tutti i postmodernismi che in qualche modo lo hanno attaccano e corroso da più parti. Perché, se fosse vero, gli studenti abbiano pochi mezzi per elaborare teoria critica è una domanda che dovresti rivolgere ai giovani e non a me. Nessuno, oggi più di ieri, impedisce di avere accesso a migliaia di volumi nelle biblioteche. Trasformare questo accesso illimitato in una conoscenza vivente è una forma di responsabilità del pensiero e del pensatore a cui ogni generazione è chiamata a rispondere. Mi pare che siano così tante, oggi, le possibilità di aver accesso a una qualche formazione critica che fatico a comprendere la portata del tuo allarme. Anche fermandoci all’ambiente universitario, trovo molto improbabile che nei primi tre anni di università non vengano nemmeno sfiorati i grandi classici e i grandi pensatori del Novecento, e con “grandi pensatori” intendo quelle costellazioni variabili che vanno, solo per fare qualche nome, da Heidegger a Foucault o, a seconda dei gusti, da Jünger a Deleuze, da Wittgenstein a Lyotard, fino a Derrida, a Jameson… È ovvio che nel suo percorso formativo universitario uno studente non li incontrerà tutti, ma è un processo – per usare una parola più o meno di moda – rizomatico, un processo in cui le radici si formano e si ramificano leggendo, attraverso quel processo autoformativo che è la lettura. Così accade che se incontro Foucault all’interno di una lezione o di un corso, poi inizio a leggere Deleuze, che è citato da Foucault in uno dei libri che ho affrontato per l’esame, ma poi capisco che Deleuze non era così d’accordo con Derrida (al centro di un altro corso), ma perché questi due filosofi non erano d’accordo? in cosa consisteva il loro dissidio? Per cercare una risposta, allora, inizio a leggere più a fondo Derrida e poi Heidegger perché senza aver letto l’autore di Sein und Zeit faccio fatica a capire Derrida, e a quel punto, essendo partito da Foucault, mi trovo a leggere Heidegger alla luce di Derrida… Questa è una ramificazione che non termina mai. Ed è una ramificazione che mi aiuta a sviluppare una coscienza critica, a rimettere continuamente in discussione ciò che ho appreso. Ed è questa pratica di lettura critica, la ragione per cui pensare significa anche, se non soprattutto, essere capaci di cambiare idea; è questa la ragione per cui, magari, a vent’anni il mio mito filosofico è Derrida e a cinquanta diventa Kant, o addirittura Hegel! Magari, si scopre che Hegel, per ritornare alla questione del coraggio, era il più coraggioso di tutti. Ma per ritornare più specificamente alla tua domanda, devo dire che, per essere onesto, io trovo spesso dei giovani pensatori tutt’altro che sprovveduti, anzi con un pensiero definito, forte, con categorie critiche che permettono loro di stare all’interno della realtà prendendo posizione. Non trovo che ci sia ingenuità – cioè, sì, magari sui grandi numeri, ma la cultura non è mai stata fatta dai grandi numeri. 

EM: È vero. Peccato che si potrebbero anche passare i primi tre anni di Filosofia senza leggere i testi, intendo passare gli esami. 

FF: Questo sì. Uno potrebbe passare anche tutta la vita senza leggere i testi – e magari facendo il professore! 

EM: Penso al suo libro dove presenta e utilizza un “anarchismo metodologico”. 

FF: Ecco, per esempio: io questo l’ho imparato all’università. È stato Giulio Giorello ad avermelo insegnato. Giorello insegnava Filosofia della Scienza e presentava dei programmi che a un ragazzo di vent’anni parevano anche assurdi o, quanto meno, inaspettati: si parlava anche di streghe! Era un professore estremamente stravagante. Tra i vari libri che consigliava per gli esami si poteva trovare anche Contro il metodo di Feyerabend. Lessi quel libro con interesse, ma non ricordo di esserne stato colpito più di tanto allora. In realtà, è un libro che ha lavorato in me per anni, sotterraneamente. Quando ho scritto L’antinomia critica, che è un libro recente, Feyerabend è riemerso, è riemerso come era apparso: come una questione metodologica aperta. Quel che riemergeva era la sua capacità di non fossilizzare il pensiero e il metodo dentro una Legge. Anzi, Feyerabend mostrava come tenere il pensiero sempre all’interno di un’oscillazione tra la Legge e ciò che è fuori dalla legge, tra il metodo e ciò che è contro il metodo. Anzi, forse, Feyerabend non oscillava più di tanto, perché era molto radicale nella sua contrapposizione alla Legge scientifica, nel tentativo di mostrare come le leggi scientifiche si formassero a partire da “cose” che non erano per nulla scientifiche. Al di là di queste sfumature, questo anarchismo metodologico lo conservo dentro di me come un elemento fondante. Se vuoi, qui il cerchio si chiude, ricollegandosi al discorso che facevamo poco fa: non puoi fare filosofia solo all’interno dell’istituzione, della Legge, perché questo tipo di sapere ordinato, se non subordinato, diventa sterile, non fertile, asfittico; si muove all’interno di uno spazio di riproduzione di quello che la Legge impone, sta all’interno dei confini, dei codici. Ovviamente, questo pensiero sub-ordinato alla Legge ha dei pregi, ha una sua utilità, ma il pensiero è, per sua essenza, almeno io credo, insubordinato, allergico a ogni ordine, a ogni prescrizione, delimitazione e, soprattutto, a ogni forma di obbedienza. È per questo che reputo necessaria, fondamentale, questa spinta antinomica, questa pulsione contro la Legge. Una sorta di negazione della Legge, nella consapevolezza di tutti i limiti che comporta ogni negazione (negazione che può essere sempre vittima della creazione di un’identità costruita solamente nella contrapposizione alla Legge e, quindi, ancora vincolata alla Legge). Non è, dunque, alla semplice negazione che sono interessato, al solo momento del negativo, ma all’oscillazione, al momento antinomico, in cui la Legge vige nella sua sospensione. Mi interessano gli spazi di confine, le eterotopie dove la Legge convive con il altro, con l’innormabile. Non a caso, io insegno in un’istituzione, non mi sono rifugiato in campagna ad allevare i polli, al di fuori di ogni quadro istituzionale, che porta con sé tutte le sue regole e il suo sistema normativo. E, ancor meno, ho rinunciato a insegnare. Io credo nell’istituzione. Credo che le istituzioni abbiano un ruolo importante nella formazione. Ma penso anche che l’istituzione debba essere sempre aperta a ciò che non è istituzione, a ciò che la deistituzionalizza. Occorre che l’istituzione viva nell’oscillazione tra interno ed esterno, altrimenti è morta. 

EM: Ciò che è fertile è un anti-metodo, anti-filosofia, non-filosofia. 

FF: Se vuoi questa è la questione heideggeriana del pensiero. Pratica un pensiero che segue, che viene dopo la filosofia, dopo l’epoca della filosofia intesa come grande sistema. La fine della metafisica, del Metodo, non è la fine del pensiero. Ma che cos’è il pensiero, per noi, oggi? Credo che, come ci ha insegnato il Novecento, il pensiero sia qualcosa di certamente più vasto della filosofia della metafisica – che pure era ed è grandiosa. E se il pensiero che ci attende è più vasto di quello della metafisica, figuriamoci quanto sia più vasto di quello della filosofia dell’istituzione universitaria. Se la metafisica, tra le altre ragioni, va abbandonata per il gradiente di violenza che ha dentro di sé, non è da sottovalutare la violenza che il pensiero accademico porta con sé. Si tratta di una violenza non minore, anzi, forse maggiore, perché l’istituzione odierna è molto più povera di quella nata durante l’epoca della metafisica. 

EM: Uno è un rischio e uno è un pericolo? 

FF: Certo, il pericolo più grande delle odierne istituzioni è quello di creare degli automi che riproducono schemi. Ma, soprattutto, esiste il pericolo di creare una massa infinita di infelici – questa è un’altra grande responsabilità che grava sul corpo docente di ogni ordine e grado. 

EM: Torno ancora al mio studio di Filosofia moderna: per espandere i limiti della conoscenza, dice Kant, dobbiamo creare connessioni non note (è il giudizio sintetico). Forse da tempo la posta in gioco non sono più i limiti della conoscenza, ma possiamo comunque tenere a mente questo come consiglio, anche arendtianamente creare qualcosa di nuovo: pensando l’arte, la critica d’arte, le pratiche femministe – che sono le prime a cui penso quando lei mi parla di sottrarsi alla Legge o abitarla continuando a resisterle – non ha senso distinguere i discorsi delle pratiche femministe dall’ecologia, dall’arte, ecc. 

FF: Credo che tu abbia ragione. Sono convinto che il pensiero debba essere aperto, il luogo stesso dell’aperto. Foucault ha scritto un piccolo testo che si intitola Il pensiero del fuori. Penso che il fuori a cui fa riferimento sia l’unica vera questione del pensiero, oggi come sempre. Il fuori del pensiero, il suo fuori. Questo concretamente si traduce in quello che dici tu: un’apertura a una pluralità di pratiche di pensiero che spesso non coincidono con quelle che, ad esempio, il docente ha portato avanti nel suo corso di studi. A me capita spesso di accettare tesi su argomenti che non conosco a fondo e da cui mi sento anche distante. Pensa che poche settimane fa ne è stata discussa una, di cui ero relatore, sull’idrofemminismo, idrofemminismo che io non avevo mai sentito nominare prima che quella studentessa, con caparbietà e precisione, avesse deciso di farne il centro della sua tesi. Non è che ora che ho scoperto l’idrofemminismo la mia relazione col mondo sia stata mutata radicalmente, ma capisco che per quella studentessa era estremamente importante passare di lì. Ed era importante per far sì che il sapere diventasse una questione urgente, vibrante per la sua esistenza, la sua sensibilità, il suo modo di stare nel mondo.

Io ho avuto modo di darle qualche spunto su un certo pensiero degli anni Sessanta e Settanta da cui l’idrofemminismo mi è parso derivare. Ho ritenuto importante, in questo rapporto formativo biunivoco, permetterle di tracciare una genealogia del pensiero. Non si trattava di una stucchevole ricostruzione delle fonti, dettata dall’idea che ciò che è venuto prima spieghi ciò che è venuto dopo, ma piuttosto del tentativo di comprendere come proprio nell’inanellarsi dei pensieri e dei gesti, potesse apparire meglio la provenienza della propria urgenza di pensiero e, si spera, la propria meta. Si, tratta ancora una volta, di un doppio movimento, di un’oscillazione, che permette di vedere, contemporaneamente, i limiti e le possibilità di espansione; permette di percepire dove il pensiero dove si può aprire o dove, invece, è destinato a una contrazione. Detto questo, sono d’accordo con te sull’apertura. Jacques Derrida scriveva un testo, diversi anni fa, intitolato L’università senza condizione, testo in cui dice, senza possibilità di equivoco, che il sapere universitario non deve essere sottoposto a nessun tipo di condizionamento perché l’università è il luogo di una sperimentazione radicale. Se il modello, invece, come sembra oggi, è di tipo aziendalistico, le condizioni diventano molteplici e stringenti. In istituzioni come queste non c’è apertura e rimane solo la sperimentazione produttiva, utile all’azienda universitaria e ai suoi dipendenti. 

EM: Mi ha colpito anche leggere del pensiero mistico, di un certo tipo di ascetismo e di estasi, che se non è un rifiuto del mondo ma vi rimane legato, può anch’esso significare apertura di nuovi orizzonti. Mi sembra che anche attraverso questo tema, il problema posto dal libro – che è una raccolta di testi molto diversi – sia quello di come sorprendere la contemporaneità e come immaginare il futuro. 

Negli ultimi mesi sono stata fortunata andando al cinema, ho visto solo grandi film, e tutti mi sembrano essere rilevanti qui: Megalopolis di Coppola, Here di Zemeckis, Oh, Canada [Schrader] fino a The Shrouds [Cronenberg] qualche giorno fa. Film di registi grandi, cresciuti in un tempo davvero diverso dal nostro, che però cercano di immaginare un cinema del futuro, e il futuro in generale. E ci riescono! Non parlo del messaggio dei film ma del linguaggio, delle sonorità – se posso citare così Nancy. In fondo tutti sono film concentrati sulla morte, la malattia, la vecchiaia, la decadenza ma ciò di cui parlano, ciò che in realtà viene celebrato è la vita, mi sembra. Così come la vitalità del cinema, e non solo. Nel pezzo di Toni D’Angela su Cronenberg pubblicato per Antinomie leggevo che se si pensa ancora, e se si fa ancora questo cinema è perché manca sempre qualcosa; nonostante la pienezza di dati, di immagini, c’è sempre il fatto che i nostri corpi (i corpi di Cronenberg!) sono sessuati e quindi sono circuiti incompleti, c’è sempre ancora spazio per il desiderio – e quindi per immaginare futuri. 

[ “Karsh invece vuole trasporre l’evanescenza, l’incertezza, l’inesauribilità del sensibile su dati inscritti in una superficie lucida e liscia rimuovendo il cordone ombelicale con la superficie natale che è il corpo che non solo è legame tra me e gli altri ma anche tra pensiero e sofferenza. Ma se pensiamo è perché nonostante tutta questa pienezza di dati qualcosa sempre manca, è pur sempre non ancora inscritto, perché i nostri corpi sono sessuati a differenza di quello di Hunny, sono circuiti incompleti che richiedono altri circuiti.” T.D., A dangerous method. ‘The Shrouds’ di Cronenberg, Antinomie

Interessante se si confronta con tutto ciò che viene detto sulla ‘morte del cinema’. Invece è vero che “le immagini non sono agli sgoccioli” [Handke]. 

FF: Non penso proprio che le immagini siano agli sgoccioli, no, proprio no. Sicuramente è giusta l’idea che manchi sempre qualcosa ed è bene che manchi. È bene che il posto di ciò che manca resti sempre vuoto – questo permette a ogni generazione di riempire un vuoto che, però, si svuota nuovamente senza fine. È bella la parola immaginazione perché contiene l’idea di un processo, di un’azione che crea immagini. Non solo il cinema immagina, lo fanno ma tutte le arti – e sarebbe bene lo facesse anche il pensiero. Sarebbe bene continuare, in ogni dove, a creare delle immagini di realtà capaci di tenere dentro di sé la mancanza; capaci di riempire la mancanza lasciando, però, sempre una pagina bianca alla fine del libro. Questa è un’immagine che dà Ingeborg Bachmann in Letteratura come utopia, testo straordinario in cui scrive che i grandi libri sono quelli che hanno una pagina bianca che attende ancora di essere scritta da ogni lettore: una pagina bianca che ritornerà per sempre bianca ad ogni autentica lettura. Ovviamente la grandezza di chi viene dopo, di chi sente la chiamata a riempire la pagina, aggiungendo la sua parola, consiste nell’aggiungere ma anche nel lasciare a sua volta una pagina bianca, un’ulteriore pagina bianca: n+1. Questa credo possa essere la differenza tra un grande film e un film mediocre. Un film mediocre è un film che pensa di poter dire tutto, che crede di poter riempire tutte le pagine o, per dir meglio, tutti i fotogrammi. Un grande film, al contrario, lascia dei fotogrammi che chiedono ancora un’immagine. 

EM: È l’idea della piega, vivere nelle pieghe e creare delle nuove pieghe nella vita in modo da viverci dentro, nel senso di vivere pienamente ma lasciando sempre uno spazio in cui possa accadere qualcosa. 

FF: Sì, “accadere” nel senso etimologico, nel senso che ci possa cadere dentro! Creare opere dove io, lettore, ascoltatore, spettatore, possa cadere dentro, per poi uscire attraverso la creazione di un ulteriore spazio. Sto pensando ancora a Bachmann e al suo richiamo alla dimensione utopica. Lei parla di letteratura ma funziona per tutte le arti: saper conservare questo spazio che non è presente eppure c’è. Per venire a me, un altro libro di alcuni anni fa l’avevo intitolato L’insieme vuoto, un insieme, cioè, che è necessario per la teoria degli insiemi ma che, fondamentalmente, non c’è, è vuoto. Ma senza di questo insieme, che è e non è allo stesso tempo, non ci sarebbe nessun insieme. In quel libro – che parlava di immagini che danno vita a insiemi variabili, a insiemi che si intersecano, congiungendole o separandole – avevo individuato un analogo dell’insieme vuoto nello sguardo. Lo sguardo, infatti, non è un’immagine ma senza di esso non avremmo immagini. Costituisce il sostrato di ogni immagine possibile, pur non contenendo alcuna immagine in sé. L’immagine è sempre rivolta allo sguardo e esso deve sostenerla, accoglierla, respingerla, maltrattarla, comprenderla, respingerla fino al punto di rifiutarla nell’atto di chiudere gli occhi… Questa, se vuoi, è ancora una volta una questione di responsabilità. Non solo nel campo della cultura visuale e delle immagini, ma anche in quello del pensiero. Cosa vuol dire pensare rispetto a quell’insieme sterminato di pensieri che ci hanno preceduti, a quella massa abnorme di pensieri che nel corso della vita di uno studente sembra essere una valanga incontenibile? È ancora una volta, in questo caso in senso figurato, una questione di sguardo, come io guardo tutti quei pensieri; cosa colgo; cosa seleziona il mio sguardo e come compone e scompone i singoli pensieri, i loro autori. La posta in gioco è molto affascinante. 

EM: Qui ci torna utile il gesto di dirimere, distinguere le immagini tra tutto quello che arriva al nostro sguardo. 

FF: È naturalmente un esercizio di gerarchia. Dire “questo è buono e questo non è buono”, è un esercizio di scomposizione e ricomposizione. In questo credo che gli artisti abbiano un vantaggio sui filosofi: sanno che le forme vanno composte, che una forma in sé è poco. Ciò che conta davvero è la composizione. La composizione delle forme è ciò che fa di un artista un grande artista. Un artista quando guarda la storia dell’arte vede una composizione di forme. Le forme sono quasi sempre le stesse, ma la vita delle forme, diceva Focillon, fa sì che le forme si compongano e si scompongano in diversi modi. È tutta una questione di equilibri, di messa in risalto, di proporzioni, di prospettive, di accenti, di chiari e di scuri. In realtà i filosofi ci pensano poco, credono che il pensiero sia una specie di blocco che sorge in maniera intuitiva o geniale dalla mente, ma anche la filosofia è composta di forme abbastanza limitate. E anche in filosofia si tratta di tutta un’arte della composizione. Anche per questo è interessante – difficile da credere per uno studente! – tornare a rileggere alcuni manuali perché mostrano come le forme ritornino in continuazione e come piccoli elementi di composizione diano origine a immagini di pensiero completamente diverse. In questa linea del tempo del tutto virtuale e, se vuoi fantastica, che il manuale traccia, percepisci e comprendi che esiste anche un’arte della composizione del pensiero, formata da pochissimi elementi formali, che dà origine a quadri, a rappresentazioni del mondo completamente diverse. Per pensare, come per creare un’immagine, ci vuole un certo equilibrio, una certa capacità di composizione, che in parte si può imparare e, in parte, no. 

EM: Forse ha ragione sui manuali! Leggendo quello di Storia della filosofia moderna e vedendo ad esempio una teoria della conoscenza dopo l’altra, mi sembrava di veder sempre tornare l’idea che le cose del mondo e le immagini modifichino materialmente la nostra mente attraverso le sensazioni. Penso a ciò che abbiamo detto sullo sguardo, sul desiderio, sull’apertura e sulla responsabilità del pensiero. Con desiderio penso quindi a un’apertura, una ferita, un vuoto o appunto un conatus, uno slancio verso l’oggetto. Mi torna in mente un testo di John Berger in cui parla dell’amore come condizione di possibilità della visione, nel senso che bisogna essere già un po’ innamorati dell’oggetto per poterlo vedere, per saperlo guardare. 

FF: C’è naturalmente una lunghissima tradizione, che possiamo far risalire anche a Platone e poi al neoplatonismo, ma naturalmente sì, c’è qualcosa che sfugge al pensiero e che allo stesso tempo lo anima dall’interno, cioè l’eros. Ora mi viene in mente un saggio abbastanza noto di Susan Sontag che s’intitola Contro l’interpretazione, dove l’autrice americana scrive che più che una teoria dell’interpretazione oggi (siamo negli anni Sessanta) abbiamo bisogno di un’erotica dell’arte. È un vero coup de théâtre da parte sua l’introduzione di questo tema, che poi non spiega. Non dice niente di più, ma fa sicuramente riferimento a una dimensione sensibile, a una sorta di rivincita del corpo sull’intelletto. È interessante questo suo spostamento, dall’intelletto al sensibile, all’esperienza sensoriale del mondo, non tanto perché “il mondo modifica la nostra mente” ma perché la nostra mente è il mondo che incontriamo, non le preesiste. E, siccome ognuno di noi incontra il mondo in maniera singolare, nessuna mente è uguale all’altra, anche se il mondo è lo stesso. È l’esperienza che cambia, ed è per questo che credo che  anche l’insegnamento dovrebbe essere lasciato aperto il più possibile, proprio per non creare menti tutte uguali –  anche se, fortunatamente, persino nella più distopica delle società totalitarie, questo compito omogeneizzante risulterebbe essere impossibile da realizzare davvero, poiché nessuna individuo è uguale a un altro, nessuna esperienza può ridursi a un modello e nessun affetto è riconducibile a un altro e questo differenziarsi degli individui e delle esperienze fa sì che gli ‘io’ siano così diversi nonostante il ‘super io’ o la Legge tenda a omogeneizzarli. È quello che dicevi tu sul lasciare libere le esperienze che si formano nel campo del pensiero. Lasciare, direi, che esse siano abitate da qualcosa che non è necessariamente pensiero. Detto altrimenti, che siano abitate dalla dimensione erotica o, usando termini classici del pensiero del Novecento, dall’oscillazione o dal rapporto tra Eros e Thanatos. Detto in altri termini ancora, da quella volontà di creazione e di distruzione di concetti che esiste nel pensiero, nel suo cuore pulsante: c’è tutta un’erotica ferocia creativa che passa dalla contestazione, dalla distruzione dell’esistente. 

EM: Questa è la critica, no? 

FF: Sì, ma forse è anche una dimensione pre-critica, una necessità vitale più che una cosciente volontà di contrapposizione, di distruzione di un certo patrimonio, di una certa tradizione culturale – che, poi, si traduce in una volontà di contrapposizione al sapere istituito, al docente, e, nella sua forma speculare, in attrazione per ciò che esso rappresenta. La logica che sottende questo oscuro sentire pre-critico potremmo riassumerla così: proprio perché sono attratto da te desidero distruggere quello che tu sei o rappresenti, correndo il rischio di tutti gli eventuali ritorni di nostalgia verso ciò che si è distrutto e ora è in frantumi. In questa direzione, mi pare che Derrida avesse davvero colto qualcosa con la parola decostruzione (parola che, in realtà, fu coniata da Gérard Granel – che Derrida conosceva bene – per tradurre la parola heideggeriana Destruktion che voleva indicare la “distruzione della metafisica”). Derrida fece scivolare la distruzione verso la decostruzione, perché pensò il gesto filosofico non, per l’appunto, come un puro atto di distruzione, come un radere al suolo, ma come un tentativo di smontaggio e rimontaggio del sapere. Credo che questo sia il grande processo psico-intellettuale di ogni filosofo, un’attrazione repulsiva o, per dirla diversamente, una creazione distruttiva. Il che, certamente, vale anche per gli artisti. Se gli artisti hanno un limite, posso dire dopo anni di frequentazione dell’accademia, è che hanno un ego molto sviluppato. E l’ego non aiuta ad abbandonare le certezze, a dubitare delle proprie creazioni.

EM: Più dei filosofi?! 

FF: Molto di più, ma naturalmente questa è una generalizzazione un po’ tranciata con l’accetta. E, ovviamente, si scherza. Però, forse, gli artisti sono spesso più convinti di avere un punto di arrivo – che coincide col proprio ego. 

EM: Vogliono “esprimere sé stessi”? 

FF: Sì, la filosofia, a volte, aiuta a smontare o contenere il proprio io, aiuta a comprendere che l’io, come diceva Foucault, è una pratica discorsiva, continuamente in fase di costruzione senza un punto di partenza. E se non c’è un punto di partenza perché dovremmo avere un punto d’arrivo? Come si potrebbe fermare il processo con cui il reale costruisce il soggetto? L’ego non è né punto d’avvio né d’arrivo. Altrimenti, l’unica possibilità sarebbe il suicidio. Ma sono questioni troppo complesse per affrontarle qui.

EM: Sì però, a proposito di quei film, pare che neanche con la morte si fermi questo lavoro. 

FF: In realtà quello che tu sei continuerà a mutare in coloro che ti sopravviveranno. Però, forse, grazie al cielo, non sarà più un problema tuo. Ecco, almeno apparentemente, ne siamo fuori. 

Non so se tutto questo parlare possa servire a qualcosa, forse questa conversazione è puro dispendio! 

EM: Infatti, non doveva servire!

Elisa Mancioli

Federico Ferrari