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Pasolini: per un audio-visione della commistione

Franco Fortini, partigiano, poeta, saggista, ideologo e polemista, spesso è entrato in rapporto anche conflittuale con Pier Paolo Pasolini. Nel 1977 pubblica un libro chiamato I poeti del Novecento, in cui parla anche di Pasolini. La realtà storica e politica circostante (fascismo, resistenza, guerra, ricostruzione, boom economico, lotte operaie e studentesche, anni di piombo, strategia della tensione: anni di grandi trasformazioni e grandi conflitti) è il medesimo per entrambi e sia l’uno che l’altro prendono posizione per trasformare lo stato delle cose.

Pasolini nasce nel 1922 a Bologna anche se vive la sua infanzia nel Friuli. Ha una formazione umanistica e vive la catastrofe della guerra fascista. Dopo la Liberazione il fratello partigiano perde la vita in alcuno scontri interni alla Resistenza, comincia a insegnare ma viene allontanato dalla scuola perché omosessuale. Da subito sviluppa un illimitato amore per la madre che sarà anche un amore per il dialetto friulano, la lingua materna. Sia la biografia che l’opera di Pasolini sono attraversate da una “disperata vitalità”, dalla volontà quasi ossessiva di esibire scandolasamente anche il suo corpo, corpo di omosessuale che gode della sua sessualità e non si nasconde in anni in cui era pericoloso esibire quel tipo di sessualità. Si esibisce, anche in televisione, prendendo posizioni politiche spesso controverse che gli attirano inimicizie non da destra – in anni in cui si diffondevano voci di “colpi di stato” – ma anche all’interno della sinistra, in cui militava, spesso bigotta e benpensante. Un altro poeta che si esibiva così tanto fu D’Annunzio. Ma Pasolini stava dalla parte giusta. È sempre stato affascinato dall’offrirsi senza pudore, come il corpo di Cristo sulla croce, che mette in scena nel cortometraggio La ricotta (1963). C’è cristianesimo e erotismo in PPP. Cristo che si sacrifica per gli uomini rinuncia al privilegio divino, si abbandona alla carne, che per PPP è libertà. Tutta la vita lotta, come ha osservato Michael Hardt, per affermare la carne “senza freni”, come nel film I racconti di Canterbury (1972), in cui esalta gioiosamente il sesso, proprio negli anni in cui il corpo femminile e il sesso diventavano sempre più una merce. Abbandonarsi alla carne è una forma di oblio e estasi. Il corpo abbandonato, un’intensificazione dell’esistenza: “Questo è il mio corpo”, come si dice nel Vangelo di Matteo, da cui Pasolini trae un suo celebre film, Il Vangelo secondo Matteo (1964). Quel corpo che cammina stranamente, che danza, come quello di Totò in Uccellacci e uccellini (1966), un corpo che – come scriveva Paolo Volponi – ha vitalità intima, una semioticità corporale che è scandalo, che sconvolge il corpo disciplinato borghese, piccolo-borghese, soprattutto dell’Italia del secondo dopoguerra.

Michel Foucault ha mostrato che il sapere non è mai puro o celestiale. Il sapere è un’eresia, come direbbe Pier Paolo Pasolini. Adesione alla reale (empirismo) ma, al tempo stesso, oltrepassamento del reale (eresia). Che cos’è il sapere? La cultura, la tradizione, le origini. Pasolini risponde o quantomeno si interroga su tutti questi problemi – che, appunto, non sono semplici dati – in un libro pubblicato nel 1972 e chiamato Empirismo eretico, che raccoglie interventi e saggi degli anni Sessanta e dei primissimi anni Settanta, gli anni del Vietnam e del centro-sinistra, della contestazione studentesca e operaia e della strategia della tensione. Se l’empirismo è un’adesione, verificata e verificabile, alla realtà, l’eresia è un’adesione ancora più radicale e scandalosa alla realtà. Adesione viscerale alla realtà: il sapere (la realtà) come adesione viscerale. Il libro si articola in tre sezioni: Lingua / Letteratura / Cinema.

In un saggio del 1964 Pasolini si pone il problema della lingua non da letterato ma da linguista e in un’ottica sociologica se non socio-politica. Il sapere non è astratto e custodito al riparo nel chiuso di una fortezza o torre d’avorio. Il titolo del saggio è “Nuove questioni linguistiche”. Pasolini osserva che in Italia non esiste una vera e propria lingua italiana nazionale, ci sono infatti quantomeno due lingue, una dualità di lingue: quella parlata e quella letteraria. Tuttavia c’è un individuo storico che incarna questa dualità: è il borghese o il piccolo-borghese italiano – che ha sostenuto il fascismo nel Ventennio. Nella lingua italiana l’espressività (forse perfino la gestualità) prevale sulla comunicazione. Italiano parlato e italiano medio interferiscono tra loro, alto e basso hanno rapporti di scambio. L’italiano è imperfettamente nazionale. Sulla realtà frammentaria, dialettale e non nazionale dell’italiano si proietta la normatività della lingua scritta usata a scuola e nei rapporti culturali, una lingua artificiale e pseudo-nazionale. La lingua parlata è pratica, quella letteraria è dominata dalla tradizione. Sia la lingua pratica dominata dalle abitudini, che quella tradizionale e letteraria sono applicate alla realtà ma non sono espressione della realtà. O, precisa Pasolini, esprimono solo la realtà storica della borghesia italiana che dai primi decenni dell’Unità non ha saputo identificarsi con l’intera società italiana. Le idee della classe dominante sono quelle che dominano nella società egemonizzata economicamente e politicamente da quella classe. Anche la lingua è storicamente, economicamente e politicamente condizionata. Il sapere, come ha insegnato Stuart Hall, è posizionato. La lingua italiana è quella della borghesia e delle sue abitudini e mistificazioni.

Non c’è alternativa a questa lingua borghese, a questo sapere linguistico di potere? Nel testo chiamato “Intervento sul discorso libero indiretto”, raccolto in Empirismo eretico, Pasolini suggerisce una linea di fuga. Una forma grammaticale in cui parla una intera categoria sociale o classe: il Discorso Libero Indiretto. Questo è una tecnica per cui il narratore parla in terza persona ma adoperando elementi della prima persona. Usa infatti le parole dei personaggi di cui racconta, i loro modi di dire e pensare quasi come in un dialogo. L’Indiretto Libero implica un’epicità umile, non è solo il ricevere il discorso di un parlante come personaggio particolare, socialmente individuato, ma di un parlante tipico, che rappresenta tutta una categoria o classe sociale, di un ambiente, perfino di un popolo. Quel popolo che manca nella letteratura borghese. La simpatia dell’autore che scrive nel rivivere grammaticalmente il suo discorso non va tanto a quel personaggio ma a tutti quelli come lui e al suo mondo. Quindi il romanzo, il sapere letterario non è più fondato sulla psicologia dell’individuo e sull’individualismo, valori borghesi. Del resto Foucault e Deleuze hanno ampiamente decostruito la nozione borghese di individuo proponendo semmai forme di soggettivazione più espanse e desideranti rispetto al borghese proprietario che calcola a partire dalla soglia della sua bottega. I passati remoti di Verga, scrive Pasolini, sono epici, tempi di un discorso rivissuto collettivamente in tutti i suoi personaggi. La condizione stilistica è quella di un ambiente. Il Libero Indiretto viene introdotto da Manzoni per rendere i pensieri dei personaggi, quel Manzoni a cui si attribuisce la tradizione della lingua italiana, ma i suoi personaggi sono più psicologici che sociologici. Il Libero Indiretto implica una coscienza sociologica. Già Ariosto aveva abbassato la lingua della poesia avvicinandola a quella della prosa e quindi in qualche modo alla lingua parlata: mimesis linguistica vissuta. In fondo perfino Dante usa materiali linguistici propri di una società, di una élite. In Dante, Ariosto e Manzoni si tratta di una mimesi che non è vissuta grammaticalmente, è piuttosto un lessico il loro. Al lato opposto di questo livello così alto, troviamo il livello basso del gergo di periferia o del quartiere malfamato. Dante stesso si serve di queste espressioni che certo non usa lui: “squadrare le fiche”, “fare del cul trombetta”. Dante evoca quelle figure senza viverle, ma il suo Libero Indiretto è lessicale e non grammaticale. 

Pasolini si interessa di tutto questo perché è scrittore ma non solo. Perché la scelta linguistica è il primo sintomo di una coscienza sociale. Dante sceglie il mondo comunale più “moderno” contro quello vecchio della chiesa.

La letteratura italiana, per Pasolini, a lungo è stata elusiva, ha ignorato lo sviluppo storico della lingua. Il problema della sincronia tra lingua italiana e lingua letteraria italiana si pone solo dopo la Resistenza, quando si assiste a un tentativo di riunificazione. In alto il barocco, l’ermetismo, l’espressionismo, le sperimentazioni di Gadda, in basso il dialetto e i naturalismi.

Gadda però, osserva Pasolini, mescola alto e basso, si serve di materiali del parlato vissuto, la sua scrittura è anche mimetica, non solo assume il tono del parlante orale ma gli fa anche il verso, la sua è una mimesi ironica e caricaturale. Esprime più antipatia che simpatia verso questi personaggi.

La letteratura borghese è incapace di immedesimarsi in altre esperienze vitali, è una difesa del privilegio ed un primo passo verso il razzismo. Sforzarsi di vivere le parole, i pensieri, i gesti di un personaggio di un altro mondo sociale rompe con questa letteratura: è la definizione di Gayatri Spivak. Ma, nota Pasolini, l’autore può incorrere in errori e mistificazioni. Pur facendo vivere i pensieri di questo personaggio altro gli attribuisce le sue parole, le parole del suo mondo intellettuale e borghese, o addirittura attribuisce a questo personaggio la sua stessa morale, poiché gli attribuisce la sua lingua.

Il Discorso Libero Indiretto non può che essere scritto in una lingua diversa da quella dell’autore. I personaggi di Moravia anche quando non sono socialmente dei borghesi, lo sono ideologicamente e psicologicamente ma quantomeno i suoi personaggi sono vitali. La Ciociara e la Noia sono scritti attraverso il Libero Indiretto, l’io è un egli che per far rivivere meglio i suoi pensieri diventa un io. Il personaggio parla infatti una lingua più bassa rispetto a quella dell’autore. Il personaggio con il suo linguaggio esprime un problema che è più intellettuale, magari dell’autore. Ma, prosegue Pasolini, il Libero Indiretto caratterizza anche l’arte. La Pop Art ricorre all’oggetto per arricchire il suo linguaggio ironico e espressivo, quell’oggetto di consumo perfino triviale è simile al lacerto parlato. Sia nel caso dei romanzi di Moravia che della Pop Art la lingua non è più quella dell’autore o del personaggio ma del destinatario. Forse Roland Barthes quando parlava della morte dell’autore e della nascita del lettore, intendeva anche questo.

L’Indiretto Libero è un’alternativa non solo ad una lingua letteraria borghese ma anche ad un’altra lingua di potere che preoccupa Pasolini negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta: la lingua tecno-burocratica che suo malgrado anche l’uomo quotidiano deve apprendere e utilizzare. Pasolini ricorda che né la lingua letteraria borghese né quella tecno-burocratica si interessano al sottoproletariato, a vaste aree non ancora sviluppate e degradate del paese, a cui si interessa Pasolini in particolare con suoi primi romanzi: Ragazzi di vita e Una vita violenta pubblicati nel 1955 e nel 1959. Una lingua nell’atto di diventare realmente un’altra lingua, quella dello scrittore e quella del sottoproletariato. Una lingua in evoluzione. Si può far parlare la fabbrica? L’operaio? Senza che questo diventi un borghese vestito con la tuta blu.

Questa lingua in atto è quella che Pasolini pensa di poter attuare soprattutto grazie al cinema, applicando il Libero Indiretto allo sguardo della cinepresa, non per guardare i personaggi e nemmeno per far guardare attraverso lo sguardo dei personaggi, ma per “guardare insieme”.

Infatti nel testo teorico “Il cinema di poesia” Pasolini elabora la sua concezione. Il cinema è un sistema di segni e la comunicazione visiva e audio-visiva che è alla sua base spesso è rozza, rispetto ai linguaggi filosofici o artistici, più vecchi del cinema. L’autore cinematografico deve ancora inventarsi una lingua. Pasolini esagerava. Ma quel che ci interessa qui non è criticare Pasolini su questo punto. Anche se manca, secondo Pasolini, un dizionario, tutti noi abbiamo occhi e abbiamo visto auto o treni o colline. Le immagini sono segni comuni, lui le chiamava im-segni. Il cinema non solo può essere espressivo ma anche esprimere pensieri ma non concettualmente: può essere parabola filosofica ma non espressione concettuale diretta. Il cinema è pensiero in immagine. Per sottrarsi alla comunicazione piatta, suggerisce Pasolini, il cinema deve far ricorso alla metafora, del resto il cinema è potentemente metaforico.

Al cinema è possibile il Libero Indiretto, Pasolini parla di “soggettiva libera indiretta”. Il discorso diretto “E già il poeta innanzi mi saliva,/e dicca: ‘Vienne omai: vedi ch’è tocco/meridian dal sole ed alla riva/cuopre la notte già col piè Morrocco’”. Nel cinema il discorso diretto è la soggettiva. Ma la soggettiva libera indiretta non è il Libero Indiretto perché questo è rivivere il discorso di un personaggio di un autore, quando questo si immerge nella psicologia e nella lingua del suo personaggio, quindi il Libero Indiretto è sempre linguisticamente differenziato rispetto alla lingua dell’autore. Nel cinema l’autore può differenziarsi psicologicamente e socialmente dal suo personaggio ma non linguisticamente, perché anche quel personaggio ha gli occhi, ha uno sguardo che abbraccia la realtà, la medesima che abbraccia lo sguardo dell’autore – Pasolini forse è un po’ aproblematico perché vedere non è neutro e implica anche parlare, si vede attraverso i discorsi. L’operazione del regista non può essere linguistica, il suo sguardo non è differente, ma solo stilistica. Antonioni, Bertolucci, Godard e Rocha sono registi che impiegano la soggettiva libera indiretta. Se la soggettiva è un’immagine-percezione soggettiva, il Libero Indiretto è una immagine-percezione oggettiva. Cioè, come scrive Deleuze in L’immagine-movimento, lo spettatore vede il personaggio in modo da poter enunciare prima o poi che quest’ultimo è supposto vedere. Mentre i maestri del cinema classico non fanno sentire la macchina da presa, i cineasti moderni la fanno sentire, non è più trasparente. La trasparenza è sostituita dalla deformazione. Quello classico è un cinema di prosa, quello moderno è un cinema di poesia. La distinzione di Pasolini suona un po’ crociana, assumendo più i connotati di una rigida opposizione e in questi termini non può essere adatta a differenziare il film rappresentativo-narrativo da quello moderno e sperimentale. Infatti gli stessi teorici della letteratura hanno decostruito l’opposizione poesia/prosa. Inoltre nel Novecento da un lato si è sviluppata sempre più la tendenza alla prosaicizzazione della poesia e dall’altro la “non-arte” è stata sempre più attratta e quasi cooptata nel mondo dell’arte.  Il cinema moderno più che farla finita con la storia, come voleva Pasolini – ma in Godard ci sono sempre storie – o con il montaggio – ma si pensi al montaggio sempre in Godard o anche in Resnais – indebolisce il racconto e fa un uso più ampio e meno regolato del montaggio. Togliere peso ai personaggi e alla struttura del racconto è stato anche il programma di ricerca di Calvino.

Deleuze offre una rivalutazione dell’interpretazione pasoliniana per cui il cinema è soggettiva libera indiretta, quindi poesia. Un personaggio agisce sullo schermo ed è supposto vedere il mondo in un certo modo ma nello stesso tempo la cinepresa lo vede e vede il suo mondo da un altro punto di vista, mentre pensa, riflette e trasforma il punto di vista del personaggio. La cinepresa non dà solo la visione del mondo del nevrotico, per esempio in un film di Antonioni, ma impone un’altra visione in cui la prima si trasforma e riflette. È quella lingua in atto che cercava il Pasolini scrittore. È uno sdoppiamento che supera il soggettivo e l’oggettivo, immagine-percezione e coscienza-cinepresa. L’inquadratura insistente, ossessiva, lo spazio vuoto dell’inquadratura, l’alternanza di diversi obiettivi, lo zoom: l’immagine-percezione si soggettiva diventando autonoma e poetica nella coscienza-cinepresa. La coscienza poetica del cinema pasoliniano conduce l’immagine-percezione dei suoi personaggi verso livelli di bestialità e intensità bestiale che la coscienza-cinepresa sacralizza: percezione eretica. Deleuze osserva che non è più importante sapere se l’immagine è soggettiva o oggettiva, ossessione moderna, ma che l’immagine-percezione si converte nel suo segno che è una composizione particolare, la coscienza-cinepresa, che Deleuze, citando Peirce, chiama “dicisegno”. Insomma Pasolini abbandona la scrittura letteraria perché il cinema può essere ancor di più una lingua in atto, quella che Homi Bhabha nel libro I luoghi della cultura del 1994, chiama traduzione. La traduzione, scrive Bhabha, è lingua in actu (enunciazione, posizionamento) piuttosto che lingua in situ (enunciato, proposizione). Se la nominazione fissa, la traduzione fa risuonare i diversi spazi e tempi, è movimento. Bhabha si ispira a Benjamin e al suo concetto di “estraneità delle lingue”, per cui il compito della traduzione non è ricondurre il diverso all’identico ma tenere aperta la comunicazione e perfino l’intraducibilità. È una conclusione a cui arriva anche il ragionamento di Jullien nel suo libro del 2018, Le identità culturali non esistono. Il trasferimento di significato non può mai essere totale, “la traduzione avvolge il suo contenuto come un mantello regale in ampie pieghe” (Benjamin). Bhabha sviluppa la tesi benjaminiana in una teoria della differenza culturale per cui ogni sistema culturale è inscritto in una posizione e le differenze culturali, pur dialogando tra loro, possono essere incommensurabili. Questa “estraneità” non è un punto debole, ma mantiene il linguaggio costantemente aperto, come un confronto sempre aperto. Sapere è eresia, cioè passare da un sistema eterogeneo all’altro, è quello che ha sempre cercato Pasolini nei romanzi, nelle poesie e soprattutto nei film. Il Libero Indiretto che nel cinema diventa soggettiva libera indiretta è la mescolanza di questi sistemi, quella mistura che indaga archeologicamente Foucault, quello che Deleuze chiama “divenire molteplice”, il sapere come potenza trasformativa, non lingua che trasmette comandi o custodisce ma in atto, che trasforma. La soggettiva libera indiretta pasoliniana è questa regola di variazione da un sistema all’altro, ma per Foucault il sapere non è nient’altro che questa regola di variazione. Il sapere non è una struttura o sapere-una-struttura, non c’è struttura – e forse su questo punto le analisi pasoliniane del potere restano attardate – ma una molteplicità, un insieme di passaggi, delle molteplicità per cui ogni segmento di sapere è un passaggio tra sistemi eterogenei, cioè divenire: divenire molteplice. Sapere non è un supposto-sapere, sapere-l’-altro, far parlare l’altro nel proprio linguaggio ma, come nel Libero Indiretto, far scivolare il soggetto d’enunciazione nel mio enunciato, il cui soggetto sono io, slittare da un soggetto d’enunciazione a un altro. Commistione di soggetti. Sapere è questa commistione, se è compilazione, lo è in atto e non classificazione che inquadra, inchioda e museifica. 

Per Deleuze, che interpreta Nietzsche, sapere è far passare su un nuovo corpo e non solo decodificare, ma inventare – e forse su questo punto lui e Foucault si sono allontanati. Corpo nostro, corpo della Terra, corpo del testo scritto, parlato, della pittura e così via. Se il sapere è decodificazione, allora lo è a patto di essere una decodificazione assoluta: è fare qualcosa che non sia codificabile, mescolare tutti i codici. Ritorna il problema del Libero Indiretto pasoliniano. Cosa fa Kafka per Deleuze? Una “macchina da guerra”: monta il tedesco contro il tedesco. Forse non si tratta nemmeno di interpretare o tradurre ma di “essere imbarcato con”. Sotto le bombe, tra i blocchi di ghiaccio alla deriva, il sapere è come una Zattera di Medusa, una condivisione, condividere al di fuori della norma, della legge, dell’istituzione – che spesso chiamiamo sapere. Il sapere come deriva, movimento di deriva o “deterritorializzazione”, rapporto con un Fuori per cui il sapere non è una relazione tra interiorità e una esteriorità, tra la coscienza e il mondo. Sapere non è solo archeologia ma è ciò che non sta nella cornice, ma piuttosto una corrente di energia, un flusso, un’intensità che non appartiene al soggetto, soprattutto se inteso individualisticamente, è destituzione della personalogia. Del resto perfino la biologia si è sbarazzata del concetto di individuo. L’intensità in quanto stato vissuto non rinvia a significati – che organizzati in un sistema formerebbero il sapere. Ciò che sta sotto i codici, perché slitta e si sfila, è questo flusso, ciò che sfugge perché si traduce e converte in altri flussi senza lasciarsi monetizzare. Sapere come intensità che non rimanda al significato, alla rappresentazione di cose, ma nemmeno a significanti, rappresentazioni discorsive. Ma tutto questo ci spinge verso la soggettivazione, l’immanenza, l’incarnazione. 

Pasolini è stato poeta e nel cinema ha cercato la poesia. Poesia è liberazione, scrive Deleuze. Ma cosa vuol dire? Che non c’è più nulla da liberare, che se c’è soggetto, “sé” questo si impegna in un un “altro” da sé, in un altro in cui (non) “si” ritrova. Ritorniamo al Libero Indiretto, a quel sapere che è grande mormorio, mormorio anonimo e non quello dei soggetti geniali, degli autori. Che cos’è un autore? Era la domanda di Foucault. C’è un sapere in quanto archivio e audio-visione, regime di visibilità e regime di dicibilità, di cui Foucault è l’archeologo, ma il sapere è anche quello immaginato da Foucault: il sapere in quanto circolazione di discorsi in cui non appare la funzione-autore o se appare questa è una funzione tra le altre. Un sapere con-diviso, un ordine del sapere che è ordine di posizionamenti per soggetti di volta in volta possibili e non soggetti inchiodati in una posizione. Il sapere in quanto campo di vettori e variabili che se interpella è solo per mettere in variazione, per depennare la personalità, l’individualità in favore di una singolarità che è quando il “si parla” prende il posto di colui che parla, quando il sapere non è più soltanto denotativo, quando si riferisce a questo piuttosto che a quello – come succede quando il sapere è canalizzato nell’istituzione scolastica peraltro oggi sempre più asservita alla logica neoliberista della “governamentalità”. Questo sapere canalizzato è lingua di potere. Variare intacca il sistema, l’uso maggiore o maggioritario, di potere, del sapere in quanto marchio del potere. È il senso o il dissenso dell’operazione teatrale di Carmelo Bene secondo la lettura di Deleuze: non un anti-teatro, non un teatro nel teatro o una negazione del teatro, ma una sottrazione, una detrazione di tutto quanto costituisce elemento di potere nella lingua e nei gesti, nella rappresentazione e nel rappresentato. Allora sapere è far balbettare la lingua, perfino afasia, impedire che il sapere in quanto lingua di potere padroneggi, far barcollare il potere, far vacillare il re come accade nel Riccardo III di fine anni Settanta di Carmelo Bene, in cui il sovrano perde l’equilibrio e scivola. 

Concetto quindi non è una cariatide o formula da mandare a memoria per far contente famiglie e imprese (una formula tipica della biopolitica neoliberale) ma bagliore, atmosfera, è quando un enunciato si circonda di un mondo, è incrocio tra sistemi omogenei al loro interno ma eterogenei tra loro. Una ragione in più per ribadire quanto sia idiota compartimentare e segmentare l’apprendimento del sapere per discipline. Il concetto è un montaggio di altri concetti. Sapere è saper concatenare, istituire relais, tessere, Donna Haraway direbbe: com-postare, quindi saper co-abitare Gaia insieme all’altro che parla in me, anche quell’altro che è nonumano. 

Toni D’Angela