Per l’immagine di copertina si ringrazia Annie Ratti
“Magical realism (MR) is simply a legba or lemba or limbo xperience: the sudden or apparently sudden discovery of threshold or watergate into what seems ‘new’ because it is very ancient … where the ‘real,’ since it has entered continuum, hold ing within its great wheel all the ‘tenses’—past present & future—no longer in so-call chronological tension, but, like the computer, w/‘random’ access memory form all or any of thetime-compass, be- comes ‘magical’ because, w/thisaccess of what I repeat is a kind of blindness, we find ourselves in a capacity of trans-limitness, erasure of expectant boundaries into mineral or plant or zemi or lwa or angel orOther”.
Kamau Brathwaite, MR
“Collapsing the hyperreal and the practical, magical realism
disrupts the violence of representation”.
Sandra Ruiz e Hypatia Vourloumis, Formless Formations
“matter ain’t the same
as one another. things don’t represent
they must be broke. they cannot pay attention
to objects like objects so they stay mad
all the goddamn time, broken glasses
everywhere. but I sound better since you
cut my throat”.
Fred Moten, Hughson’s Tavern
Nuove alleanze, sono quelle a cui invita la mostra Magical Realism: Imaging Natural Dis/order a cura di Sofia Dati, Helena Kritis e Dirk Snauwaert, ospitata presso il Wiels e lo spazio ARGOS di Bruxelles. Come quelle suggerite da Ursula Le Guin, per riconoscere amicizie e generare parentele che tessono la trama della cosmologia di Daniel Steegmann Magrané (La pensée férale, 2020): l’interdipendenza (che è mutualità) di pianta animale uomo, come insegnano gli Amerindi e Viveiros de Castro, testimonia che fin dall’inizio, fuori di metafora antropocentrica e umanistica, tutto è “umanità”, cioè degno di essere percepito e di vivere. In questo rimpasto etnografico di Steegmann Magrané che, nato in Spagna, da anni vive in Amazzonia e a cui l’Hangar Bicocca aveva dedicato una personale nel 2019, l’umanità è, per dirla con Isabelle Stengers, come “un denso insieme di relazioni” e un “concatenarsi di relazioni” da cui (co)dipendiamo. Sandra Ruiz e Hypatia Vourloumis direbbero “resonant being together”, dirottando dalla fisica il concetto di risonanza, cioè la vibrazione di più oggetti “at the same frequency”. La mostra Magical Realism presenta quelle che le due ricercatrici, ispirate da Bataille e Rosalind Krauss, chiamano formless formation, l’assemblea/assemblaggio di response-ability reversibili. Un prospettivismo e una reciprocità gioiosa (quella di cui parla Silvia Federici) che implica una continua metamorfosi: tra(n)sformazione di cose e esseri viventi che si originano gli dagli altri e attraverso gli altri.

Daniel Steegmann Magrané, La Pensée férale, 2020
Non c’è un’altra arca disponibile, se non questa alleanza, o l’“acquario” dell’artista cilena Cecilia Vicuña (NAUfraga, creata per la Biennale del 2022) che assembla aleatoriamente i materiali di un naufragio: la nave si è già schiantata. Toccare, vedere, gustare, sentire “magicamente” il reale irriducibile e indeterminato, e suscitare alchimie impreviste. Annodare e tessere trame del re-incanto di questo mondo, come fa con i suoi tessuti emozionali Annie Ratti che cuce persistenze memorie metamorfosi di un’ecologia fragile ma ancora fertile, che annoda diverse temporalità (questa sezione della mostra si chiama “the time traveller”). Frammenti di un discorso amoroso, legature di figure evocative, quasi un atlas aptico e ottico tanto reale quanto magico.
La magia o della democrazia dell’incantamento (o reincantamento) del reale attraverso l’assembly di tutti i potenziali scambi di particelle, emozioni e energie: “a touch, that in its incommunicability, roars a world into existence”, scrivono Ruiz e Vourloumis (Formless formation, 2021).

Otobong Nkanga, Forgotten Amongst the Living, 2023
La terra è scorched, come recita il titolo del recente libro di Crary, ma l’artista nigeriana Otobong Nkanga, con l’installazione Forgotten Amongst the Living (2023), rammenta quel che abbiamo dimenticato: che siamo ancora vivi. Nel paesaggio come di un western tramortito da una tempesta di sabbia nera, attraversato da vettori e linee di fuga, c’è speranza che è insita non nell’azione, come voleva Sartre all’indomani di Auschwitz e di Hiroshima, ma nell’inter-azione, in quel in-between arendtiano a cui si richiama anche la dipendenza di cui parla Judith Butler. Il riflesso sul vetro soffiato dei terrari sigillati di Nkanga apre il museo al contrario, lo rovescia all’interno di queste bolle che sfuggono al paradigma dicotomico di natura e cultura e che sembrano proiettarlo all’esterno ed espanderlo nell’ottica, piuttosto, del NatureCulture di Haraway. C’è un gioco di sovrapposizioni e sovrimpressioni: la sala del museo attuale si specchia sul vetro virtuale saturo di condensa che fa da cielo alle piante che crescono al suo interno e le cui foglie imprimono segni sui tubi di acciaio che attraversano il loro spazio) che ancora una volta mette a tema il dispositivo di assoggettamento e soggettivazione della fruizione artistica. Deleuze direbbe sia “scambio ineguale” con il Fuori, dissymétrie, che immagine reciproca, image mutuelle, in un’oscillazione niente affatto contraddittoria e che è come una soglia, o una piega. Ma tutta l’esperienza di Magic Realism è come una fluttuazione performativa che fa basculare i confini.
Al margine dell’installazione di Nkanga i versi incisi sull’argilla nera ricordano che non è ancora tempo di indossare il lutto, di cedere alle passioni tristi né di contemplare la catastrofe. “While we stand / While we wait / While we watch / We can’t yet mourn / Until then”. Parole come pietre miliari di nuovi sentieri dell’immaginazione che magari conducono a una federazione repubblicana di agentività.

Adrián Villar Rojas, The End of Imagination II, 2022
Agencies che transitano dal digitale alla “ferramenta”. Adrián Villar Rojas, argentino, ha costruito un’installazione compost che è come un correlativo oggettivo dell’intersezionalità. Costruttivismo sci-fi, archeologia del futuro o quantomeno una sorta di fossile del futuro, come certi calchi di Bruce Nauman. La strana creatura di Villar Rojas potrebbe aggirarsi tra le rovine a rovescio di Robert Smithson, cioè come l’origine di qualcosa, un divenire aperto. Il cantiere di Passaic nel New Jersey che folgora Smithson, rimandava ad un tempo altro e non-lineare. Il “dinosauro” è una macchina da guerra, forme formless di alter-vita, una spazialità mostruosa che è come una macchina per viaggiare in un tempo atopico. Un macchinarsi che potenzia. Anche il materiale industriale di Marisa Merz negli anni Sessanta, cioè dell’Arte Povera, veniva convertito in un elemento non soltanto artistico ma complementare alla vita quotidiana. Merz taglia la (propria) cucina con delle strutture-creature di lastre di alluminio, che presentano un’aria di famiglia con quel fossile mostruoso di The End of Imagination II di Villar Rojas.

Marisa Merz, Untitled (Living Sculpture), 1966
Del resto il nostro corpo, anche se appare morbidamente come una scultura di Henry Moore, è sempre nel reticolo, quello allestito da Jumana Manna, nata negli Stati Uniti e residente a Berlino. Reticolo tentacolare di pratiche e discorsi che l’artista inscrive in un archivio materializzato in una serie di grate d’acciaio tipicamente impiegate dentro display industriali ma anche per raccogliere e ordinare, anzi addomesticare materiali etnografici. La nostra aisthêsis, scriveva il Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, è “fabbricata”: una Bildung prodotta da un Arbeit. Ma l’archivio nel lavoro di Manna è incompleto, interrotto e aperto, è materia fragile o quantomeno sabotabile. Marx aveva anche colto che la nostra sensorialità è intrinsecamente, ontologicamente, scambista, oscillante, permeabile o, come si dice oggi: inter-specie. L’artista Edith Dekyndt nella installazione multimediale Animal Methods (2024) gli uccelli imitano il rumore delle macchine installate in quella che ormai non è più solo la loro Umwelt. Interscambiabilità, imitazioni reciproche, travestitismi inter-specie, innesti di organico e inorganico. Interazione mimetica. La pelle del serpente velenosa, nel video-performance di Dekyndt, prende vita tra le dita dell’artista assumendo nuove figurazioni in forza del soffio del vento: fiamma d’aria, un vessillo che schiude i domani.

Edith Dekyndt, Animal Methods, 2024
Compostare è anche il senso materico dell’operazione che attraversa i pannelli della belga Ann Veronica Janssens del 2023-24, il cui colore emerge dall’intra-azione, o come direbbe Rauschenberg, dalla co-composition tra particelle microscopiche e luce, delineando spaccature, crepe, ferite, tutta una sismologia: profonde correnti marine che sembrano sentieri intagliati su una corteccia d’albero, o immagini satellitari (quelle che nel Manifesto Cyborg erano indicate come capaci di trasformare il nostro sentire) che mostrano zone di calore, ma anche aloni che sovrapposti sfumano i confini. Con Brecht e Karen Barad: entanglement come estrangement.

Ann Veronica Janssens, Untitled, 2023-24
Il duo mountaincutters invece dissemina carte di una geografia ibrida di “quasi-oggetti” à la Latour, associazioni e attaccamenti che, agglutinando, diventano anche come degli “oggetti a reazione poetica”, quelli di Le Corbusier, dotati di una agency magica, trasformativa e che innesca nuove modalità di co-abitazione. Una coreografia agenziale per una promenade o training all’altezza del trouble, per co-abitare i molteplici mondeggiamenti ed entrare in risonanza con i “mostri”.

Joan Jonas, Moving Off the Land II, 2019
Moving Off the Land II di Joan Jonas, situato presso ARGOS e allestito per la prima volta a Venezia nel 2019, innalza esponenzialmente il mimetismo che attraversa la mostra e che qui ha un’origine filogenetica (“We all came from the sea”) e risponde al problema di come entrare in relais con la mostruosità. Un transitivismo postmediale che è un divenire-medium soprattutto quando Jonas tocca le immagini cortocircuitando aptico e ottico, giocando con il suo mettere le mani sul supporto non solo con la foca del video ma anche con la tensione delle superfici, rendendo translucida la trasparenza del medium che, come scrive ne Le supermarché du visible Peter Szendy ispirato da Benjamin, fa passare e circolare, istituisce (media) l’immediato: “devenir-médium du médium”. Quando Jonas tocca con la mano lo schermo, come in alcuni film di Bergman o Godard, propaga le immagini ma par contact. Il toccare non è solo un aspetto della videoinstallazione che è anche una performance ma è il suo elemento, quello in cui si muove, come l’acqua in cui nuota la novantenne Jonas, che fa sentire lo scarto, la differenza minima tra le superfici, quella che Derrida nel libro dedicato a Nancy ha battezzato “désadhérance” o differenza dall’interno tra l’aptico e l’aisthêsis in generale. L’inter-position, per dirla con Derrida, l’intervallo tra le superfici innerva la coabitazione di differenti textures, una federazione di agentività, un agencement che è un contatto (im)mediato. La condizione del (nuovo) cont(r)atto (a cui alludeva Michel Serres) tra Jonas (umano) e la foca (nonumano) è un gioco a distanza, la coesistenza accomuna ma non lega, poiché tra le superfici, sia quelle tecniche che quelle dei corpi dell’artista e dell’animale, c’è tensione, contatto a distanza, (im)mediatezza. Ciò che innerva, quindi che potenzia, come sapeva Benjamin, è questo filtro che è al tempo stesso un affrancamento, un passaggio ma senza traguardo. Gli esseri sono (magicamente) prossimi ma nell’estraneità (reale). Per sopravvivere in un pianeta danneggiato occorre risalire all’origine dell’evoluzione che Lynn Margulis ha chiamato “intimacy of strangers”.
Toni D’Angela
Elisa Mancioli