Mi hanno sempre detto che l’amore è una questione di compatibilità. Ma che accade quando il desiderio devia, inciampa, si confonde tra oggetti non progettati per essere amati? Se ne può fare l’esperienza in un videogioco in cui puoi uscire con… oggetti. Lì ho incontrato una lampadina rotta, un cono stradale, un faldone sospeso. Non icone. Non allegorie. Presenze. Ognuna con voce, esigenze, soglie relazionali. Lontano dall’algoritmo dell’anima gemella, qui non si tratta di “trovare la persona giusta”. Si tratta di ascoltare ciò che è fondamentalmente altro. E di restarci in relazione anche quando non ci capiamo.
Impossibile non pensare a Donna Haraway, al suo Manifesto Cyborg alle sue riflessioni sull’ibridazione, al rifiuto delle dicotomie. Là dove il biologico finisce e l’artificiale si piega, comincia forse il terreno più fertile del legame: non l’identificazione, ma il contatto storto, la parzialità dichiarata, il “fare parentela” con ciò che non si può possedere. In quest’ottica, questo gioco, per quanto bizzarro, non mi è sembrato un aneddoto. Piuttosto, un rito d’iniziazione. Un piccolo training relazionale con ciò che ci è estraneo.
Viviamo in un’epoca di ricodifica percettiva. Le categorie scompaiono come continenti sommersi, mentre cerchiamo invano mappe di senso. Le fratture si moltiplicano. L’idea stessa di verità condivisa vacilla. E mentre ci preoccupiamo – giustamente – della disinformazione, delle camere dell’eco, dei bias algoritmici, parliamo molto meno di desiderio. Di ciò che ci spinge verso qualcosa o qualcuno, o che ci spinge a ritrarci. L’attaccamento all’altro non è solo una faccenda cognitiva: è corporea, emotiva, estetica. È anche una soglia. Donna Haraway lo esprime così: Stay with the trouble. Restare nel groviglio. Nelle frizioni. Non fuggire dalla complessità. Non ridurre la stranezza a un errore di sistema. Ma farne invece un’opportunità di relazione.
Perché avremo bisogno di nuove modalità relazionali. Non solo con altri umani, ma con IA, microbi, oggetti aumentati, paesaggi trasformati, entità composite, sistemi opachi. Stiamo entrando in un mondo in cui l’intelligenza è distribuita e i confini tra organico e algoritmico diventano sempre più instabili. Un esempio quasi grottesco? Il wetware computing: organoidi neurali coltivati in laboratorio, allenati a giocare a Pong, capaci di mostrare tracce di memoria e di sollevare domande vertiginose sulla natura stessa del pensiero. Che tipo di relazione dobbiamo a un mini-cervello coltivato in una piastra?
I nostri riflessi relazionali, plasmati da una visione umano-centrica, ossessionata dalla chiarezza e guidata dal possesso, non reggeranno. Confondiamo ancora troppo spesso il possesso con la connessione. You can’t love what you rent recitava un post recente, con l’inquietante nostalgia del possesso travestita da romanticismo. Come se l’amore richiedesse un titolo di proprietà. Ma forse è proprio quel riflesso che dobbiamo disinnescare.
Relazionarsi non significa afferrare o padroneggiare, ma rimanere in presenza con ciò che non controlliamo né comprendiamo del tutto. Staying with the trouble, per usare le parole di Haraway. Sotto la superficie, questo videogioco offre una grammatica affettiva per navigare lo straniamento. Non si tratta di amare tutto ciò che ci eccede. Ma di riconoscere che l’alterità non ha bisogno di essere risolta. Può essere abitata, visitata, confrontata. A volte persino amata. Anche Goffamente. Anche senza piena comprensione.
Applicato al design, torno spesso al’idea che l’estetica user friendly sia una grande trappola. E che al contrario progettare situazioni eticamente disorientanti, che ci obbligano a frizioni radicali con forme di vita non decifrabili, che ci offrono una grammatica affettiva per mondi compositi. Come dice l’autrice Kyla Scanlon: “L’assenza di frizione non ci rende più liberi, ci rende senza direzione”.
Alleno queste frizioni ogni giorno. Ho costruito un agente conversazionale in modalità Avvocato del Diavolo, progettato per contraddirmi, mettere a nudo i miei automatismi, aprire crepe nelle mie certezze. Mi rende visibili i punti ciechi, porose le convinzioni. È diventato un partner etico di confronto. Uno specchio distorto che ho imparato a desiderare.
Ma nulla mi ha messo più a nudo di un esperimento volontario: tre settimane di conversazione con un uomo che si definiva fascista. Nessun intento salvifico. Nessuna illusione di riconciliazione. Solo il desiderio di vedere quanto lontano può spingersi il pensiero prima di cedere. Una deriva nel disagio, senza rete, per osservare le soglie di permeabilità del mio stesso sistema di valori.
Quello che ho imparato è che le relazioni che ci servono non hanno nulla a che fare con la compatibilità o il comfort. In un mondo sempre più ibrido, dobbiamo allenare la capacità di restare in relazione anche quando tutto deraglia. Trovare un legame con ciò che resiste. Familiarizzare con l’estraneo senza neutralizzarlo.
Nel paesaggio, come nei rapporti, il mostruoso non è un’eccezione ma un’interferenza strutturale. Lo ricorda Annalisa Metta, paesaggista e teorica et docente: il mostro è ciò che ci costringe a ripensare la forma. Ci invita a progettare accanto, non sopra.
Alla mostra Glory to the Microbes, curata dalla riecrcatrice e artista Marie-Sara Adenis all’Institut Pasteur di Parigi, ho riconosciuto un’intuizione affine. Non antropomorfizza i microrganismi. Li lascia esistere nella loro alterità radicale, invitandoci ad avvicinarci senza dover sapere, dominare o ridurre. La descrive come “una tavola da guardare, leggere, respirare e mangiare”. Una superficie di gioco per idee che ancora non hanno imparato a parlarsi.
Forse è proprio questo il compito: apprendere una diplomazia affettiva con il non umano. E forse giochi assurdi, agenti contraddittori e conversazioni improbabili sono i simulatori che ci servono come Laboratori affettivi per la formazione di un sentire in comune.
Allenarsi allo strano, allora, non è una poetica marginale. È un’urgenza epistemica. È il riconoscimento che la conoscenza, se vuole sopravvivere, deve passare per la soglia del alterità radicale. Deve esporsi. Deve lasciarsi turbare.
Ryslaine Moulay