1. Ho nutrito da sempre una certa difficoltà nell’utilizzo e nella fruizione di termini che abbiano a che fare con la contemporaneità tecnologica. Se in un testo creativo o saggistico che sia leggo intelligenza artificiale, google, social, e-mail mi ritraggo. Va da sé che servirmene sarebbe fare violenza a me stesso. Il discorso si attenua nel rapporto con il vedere. Se mi imbatto in un film, anche non fantascientifico, l’attrito con le mie idiosincrasie è decisamente più morbido. Forse la ragione è che vado poco al cinema, e che sicuramente non farò mai un film. Non disprezzo gli scrittori e le scrittrici che se ne servono con coscienza e sono consapevole che sia un mio limite, accompagnato probabilmente da un grande amore per quella produzione artistica che poteva essere scevra dal contatto con questi media. D’altra parte, sarà una nausea nei confronti del reale, dal quale non voglio fuggire, ma considerare in trasparenza, venendone toccato per una semplicissima ragione: perché è qui che sto (ed è qui che devo stare). Il problema, dunque, è: come scrivere di The Shrouds, l’ultimo film di Cronenberg, film che rende la tecnicizzazione e l’informatizzazione della morte il perno della propria intessitura? Come limitare nel metadiscorso un linguaggio che non mi appartiene? Innanzitutto bisogna spostare la qualità del come, renderlo un obiettivo estetico e non retorico. Per intenderci, mi è sembrato necessario deviare il discorso dal come dire senza all’essenza del come, che poi non è nient’altro che come è percepito il che cosa.
2. The Shrouds, di fatto, mi è sembrato un film sulla negazione del lutto, se, tra il groviglio della trama, si può estrarre il sottile filo conduttore che vede un ricco protagonista cercare delle strategie per non dare addio alla moglie morta. Karsh, incarnato da un sorprendentemente loquace Vincent Cassel, tenta, dunque, di eternizzare la fine della donna, assistendo, da una sorta di schermo posto sulla tomba, al processo di disfacimento del suo corpo, avvolto in un sudario, The Shrouds.
Dire addio, tomba, eterno, disfacimento, sono concetti con i quali mi trovo più a mio agio, i che cosa del mio come, ma questi, adesso che ne scrivo a qualche settimana di distanza dalla visione, vengono avvolti da una patina colorata. La dominante è blu, un blu sbiadito, o, meglio, come direbbe L. Wittgenstein, “Qualcosa che dà sul blu.” La tinta cromatica del film, la percezione della tinta cromatica del film, lo rende coeso più della trama stessa e ne intesse le tonalità tanto melanconiche quanto glaciali: il blu malinconico e il blu glaciale si confondono per tutta la durata della pellicola, convivono continuamente, trasmettendo una idea di convivenza che è possibile solo qui, in questo film, perché, anche grazie a questa cromatura, comunica l’aggiramento del lutto. Il blu malinconico, del resto, è quel blu dello stare nel lutto; il blu glaciale è quel blu che protegge dal lutto. In The Shrouds, invece, lo stare nel e il proteggersi dal lutto, si colorano di questo blu glaciomalinconico, proprio perché è l’incapacità di stare nel lutto a essere posta al centro, una incapacità che riversa tutta la sua energia tecnologica nell’attaccamento maniacale al soggetto morto che non smette di morire. “E io non voglio, non voglio farli morire”, scrive Pascoli nella prefazione ai Canti di Castelvecchio, mettendo in evidenza un certo sforzo nel tenere in vita i cari morti, ma nella consapevolezza che “un mondo che ha rinunciato al pensiero della morte […] cade nel delirio […] o stolido o tragico.” Cronemberg, così, pennellando la sua fotografia di questa tinta glaciomalinconica, fa agire un personaggio che prova a “rimuovere il pensiero della morte” e, in questa rimozione, delira tra lo stare e il proteggersi, tra il finito e l’eternizzazione, oscillazione delirante per la quale lo spettatore speculare rispetto al protagonista non potrà che sprofondare nel mal di mare. Un altro blu, dunque, sbiadito, indefinito, una sensazione per la quale l’unica soluzione è cercare di fissare l’orizzonte: il finito, certo. La linea apparentemente ferma grazie alla quale salvarsi dalla fluttuazione.
3. Il ricco e nauseante, proprio perché ricco, protagonista di The Shrouds costruisce un impero economico sui suoi tecnocimiteri, in quella Gravetech in cui avviene l’addio, la tomba, l’eternizzazione, e il disfacimento. In questi, come si diceva, è possibile osservare il lento disfarsi delle salme attraverso uno schermo posto sulla tomba. Osservare la decomposizione, ad ogni modo, non è nient’altro che il tentativo di prolungare l’esistenza, fosse pure batterica, di un soggetto. La mia questione estetica, dunque, salta, inaspettatamente, su quella ontologica. In un sistema siffatto, quindi, in chi si prodiga per l’eternità e, cosa ben più controproducente, dell’eternità del lutto, non può esserci scoperta, dis-velamento. La s-coperta in effetti è possibile solo a contatto con la sepoltura: è possibile s-coprire solo ciò che è coperto. Se la copertura, il sudario, invece, The Shrouds, l’involucro, è di per sé ciò che permette l’osservazione del coperto precipitiamo nello stesso paradosso che dà avvio a quella cinetosi di cui parlavo a proposito della oscillazione tra blu malinconico e blu glaciale. Più che uno scoperchiamento, questa è una profanazione, un tentativo antitragico che affida alla techne ciò che la physis non può concedere. La physis, del resto, chiederebbe lo smembramento, la dissoluzione, qualcosa che non necessariamente inizia ma che necessariamente finisce. Il disfacimento giorno dopo giorno, un disfacimento che segue i bioritmi dell’esistenza, d’altra parte, sembra aggirare, per mezzo della tecnica, l’ontologia dell’umano, nonché l’ontologia del desiderio. L’essere umano, in effetti, desidera che le cose finiscano. La techne dilata. Il desiderio, forse, costituisce il male dell’esistenza: la ricerca di colmare la distanza dalle stelle nella consapevolezza del necessario fallimento, la ricerca di limitare l’illimitato. La techne segue il percorso inverso: parte dal finito per raggiungere l’infinito, o, meglio, capovolge il finito in infinito, attribuendo l’in-concluso a ciò che conclude. Questo ribaltamento è possibile, però, solamente all’interno di un sistema fondato sul capitale, su ciò che basa la propria espansione non sul desiderio, ma sullo sfinimento. Se l’io desidera che le cose finiscano, l’infinito della produzione mantiene in vita, aggiusta, corregge, e, intanto, logora.
4. Lo schermo che dà accesso alla tomba, come il capitale, è lo strumento progettato per accedere al logorio, che non si relaziona con il limitato, se non per intaccarlo come delle piccole gocce d’acqua che battono senza interruzione sul capo di un condannato. Io che finisco, invece, voglio finire. Io che guardo finire, desidero che il tutto “smetta di finire.” È questo groviglio che il protagonista di The Shrouds, con il suo disseppellire, visivamente, attraverso lo schermo, i sepolti, e il suo vivere sepolto, cerca di risolvere. È questo groviglio di infinito di produzione e finito di umano che genera una bevanda poco appetitosa che somiglia tanto all’Occidente, allo stato della sera, l’Abendland in cui mentre la notte viene illuminata, in realtà, se ne desidera intimamente l’avvento definitivo.
5. Supponiamo, a questo punto, di porre una domanda “Che cosa ti costringe a restare in silenzio sulla scala disfatta, nella casa degli avi? Nero di piombo.” In questo estratto da Metamorfosi del male di G. Trakl la costrizione è data, probabilmente, dalla fine del ciclo cosmico cui si imbatte il poeta e la sua generazione, quella fine del ciclo che impone la vicinanza di morte, il “Nero di piombo” in cui non si vede. La scala è una via attraverso la quale si accede alla morte, ma, proprio perché disfatta, l’unica possibilità concessa è quella di “restare in silenzio” sulla soglia, davanti a un varco inaccessibile. Si resta vicini a, senza addentrarsi in, né con lo sguardo, perché tutto è nero, né con il corpo, perché la scala non è percorribile. “Nero di piombo.” Lo schermo glaciomalinconico sulla tomba di The Shrouds non costringe, invece, ma attrae ipnoticamente; non pone vicini alla morte, alla soglia, ma in una situazione di prossimità rispetto a una apertura visiva, in una illusione di vicinanza o una ossimorica distanza ravvicinante. Se guardiamo il disfarsi attraverso lo schermo, come fa Karsh, la nostra postura non è quella di chi sta vicino, stehet, a un muro, ma quella di chi cerca, attraverso lo spiraglio aperto dalla techne, di sfondare il muro, contemplando il visibile e non la visione, il rivedersi e non l’addio: e così, osando, nel paradosso della distanza ravvicinante, l’infinito diviene per osmosi ossessione. Stando vicino al muro, guardo in alto o indietro, supero o riattraverso; rimanendo vicino a una apertura tecnica, l’occhio è attratto ipnoticamente dal disfacimento. Chi accede “nella scala disfatta”, fosse pure attraverso uno schermo, insomma, cerca la malia dell’infinito, ma trova la mania del morbo.
6. Secondo Max Krommerell, Novalis, che in un certo senso inaugura la poesia filosofica, scopre la sua intuizione, ovvero che il suo dire possa darsi agli altri, “attraverso il sepolcro della amata.” Il punto è che il sepolcro chiuso, ermeticamente inaccessibile, è una soglia, una linea di demarcazione che separa ciò che c’è di qua da ciò che c’è di là, il visto e il non-visto, lo scoperto dal coperto. Dato nella sua invisibilità, Il sepolto è “una cosa terminata, cioè al di là del quale non v’è più nulla. […] Una cosa terminata per sempre e che non tornerà più”, scrive Leopardi. Beas, la moglie di Karsh, non tornerà più, certo, in quanto tale, ma esiste la sua salma, dato che il suo corpo si sfa davanti agli occhi dell’uomo a lutto. Non è il nulla determinato, poiché la salma continua a divenire e mutare da umana-morta a materia-moribonda. E, forse, ci dicono i tragici greci, si devono amare i morti, ma come è possibile amare la materia moribonda, quel nulla depotenziato che non è né nulla né essere, immagine del divenire-niente di cui non è afferrabile la meta? La salma di The Shrouds dà e dà ancora, ma solo all’occhio dello spettatore, ed in quanto tale è desiderio di una morte infinita che abbia ancora qualcosa da offrire. “L’amore più puro – però – è quello che si nutre per i morti, perché è desiderio di una vita finita che non può dare più nulla.” (S. Weil). Mentre Beas-morta non può dare più nulla, la salma-Beas dà: o, meglio, frutta, come un interesse economico. Non è nient’altro che questo la Gravetech, il cimitero tecnologico di Karsh, un puro interesse economico. E, sì, come scrive Simone Weil, l’amore più puro è quello che si prova per ciò che è definitivamente finito: ciò che frutta, invece, insinua la nausea.
7. Uno tra i libri più belli che abbia letto quest’anno è Gravesend, della poeta americana Cole Swensen. Il titolo dell’opera, Gravesend, rimanda a una città inglese il cui nome riconduce immediatamente a qualcosa che abbia a che fare con le tombe. Non è chiaro quale sia il rapporto con la tomba in sé, né le motivazioni di questa definizione. “Il suo nome deriva dal fatto che nessuno mai tornava”, scrive Cole Swensen nella sua poesia epistemologica Gravesend – Fine della tomba. Nella strofa centrale di questa poesia, inoltre, aggiunge: “Una volta sognammo che una tomba ha una fine,/ che una vita non continua a crescere indistintamente / finché la tomba non si estende da qui/ al suo margine.// No, una tomba è un lamento.”
Luciano Mazziotta